L’apparente stranezza di un titolo che associa tre realtà tanto diverse (in una sequenza che evoca una gerarchia di rilevanza della loro presenza nella cronaca politica italiana di queste settimane) corrisponde al riassunto sintetico di questa riflessione: «Stiamo vivendo in un mondo drammaticamente capovolto. Eventi che vanno dalla banalità alla tragedia sono “coperti” nella cronaca e nella realtà con un’attenzione inversamente proporzionale alla loro rilevanza: per la vita pubblica italiana e come indicatore-espressione di un problema globale, che è nello stesso tempo di civiltà democratica e di implicazioni politiche ed economiche». Il riassunto delle caratteristiche delle tre realtà proposte nel titolo mira ad esplicitare la fondatezza e l’importanza concreta dell’ipotesi di lavoro.
Il green pass è un provvedimento assolutamente marginale nella gestione del rischio pandemico: nella sostanza non è altro che una misura operativa (tra le tante) tesa a ridurre le probabilità di “contatti a rischio di contagio”, sottolineando nello stesso tempo l’importanza di arrivare a un grado elevato di copertura vaccinale della popolazione. Era/è giustificato, più o meno obbligatorio od esteso? Come tante delle misure prese per il controllo del rischio epidemico (in Italia e fuori, con criteri estremamente variabili da paese a paese) la fondatezza “scientifica” del green pass (che non è un obbligo vaccinale per motivi di salute pubblica!) include margini importanti di incertezza: negli obiettivi e nella applicazione. Come tale dovrebbe essere oggetto di politiche di informazione trasparenti, lineari e comprensibili: a) sui suoi aspetti positivi (uno degli strumenti per allertare dell’esistenza di un problema, e un promemoria dell’importanza di aderire a una campagna vaccinale quanto più possibile estesa); b) sui suoi potenziali abusi applicativi (limitazione della fruizione di alcune libertà di scelta: da quella, certo non grave, dell’accesso a ristoranti al chiuso, a quelle ben più rilevanti di viaggi e attività lavorative, culturali etc.). Come promemoria di essere parte di una comunità in cui le responsabilità sono condivise esso presuppone-richiede politiche trasparenti ed efficaci di comunicazione da parte delle istituzioni, mentre sono note (dagli inizi della pandemia) le carenze nel rendere univocamente comprensibili certezze e incertezze, obblighi e raccomandazioni, benefici e rischi delle decisioni operative da adottare per una salute pubblica che sia veramente un progetto comune. Tuttavia, trasformare un problema di comunicazione e di ricerca di un consenso informato verso politiche di salute pubblica in una questione costituzionalmente rilevante in termini di discriminazione, con un’opposizione che si traduce in processi di disordine pubblico, coincide con una manipolazione programmata dei dati e dei fatti per obiettivi di parte che non hanno nulla a che fare con il bene comune della protezione di tutta la popolazione dal rischio pandemico. A una carenza ‒ da denunciare e correggere ‒ di comunicazione responsabile, con un linguaggio al servizio di scelte informate e democraticamente confrontabili, si risponde con il linguaggio (nei contenuti e nelle modalità) della confusione informativa fuorviante, che viola di fatto il diritto fondamentale di essere soggetti liberi di fare le proprie scelte motivate. Un “normale” problema di scelte tecniche in vista di una cultura di “solidarietà nella diversità” è stato trasformato in protagonista dell’attenzione della politica istituzionale e dell’opinione pubblica basata sulla contrapposizione, sul sospetto, fino alla violenza verbale e fattuale. In attesa di una decisione, che è arrivata con la “didattica” dell’autorità che non vuol più perder tempo. Sarà la soluzione?
Con la solennità affermativa delle promesse-impegni che stanno dietro le parole che ne formano l’acronimo (e con il peso della loro traduzione in miliardi di euro da capogiro), il PNRR è stato protagonista delle stesse settimane-mesi che hanno visto il green pass in primo piano con una strategia opposta: tanti silenzi, mezze parole, lanci o cronache di dissidi ben bilanciati, di promesse e del loro contrario, di scenari di sviluppo e di recupero di indicatori economici separati da fatti concreti sulla situazione occupazionale, sull’ambiente, sulla mortalità da lavoro. Il futuro del paese è stato gestito con criteri di semi clandestinità, per quanto riguarda le decisioni da prendere o già prese in settori strategici: dalla sanità (venduta e rivenduta come il test di un sogno realizzato, ma senza alcun segno visibile di cambiamenti reali) all’energia, senza parlare della scuola, accuratamente mantenuta come area marginale per quanto riguarda contenuti e risorse (vantata solo per la copertura vaccinale dei docenti, buoni candidati al green pass: non è poco, ma stona ancor di più per la dissociazione che mostra sui punti sostanziali). Solo la riforma della giustizia è stata oggetto di grandi e controverse attenzioni, che hanno documentato una conflittualità politica, ma non hanno certo contribuito a creare un’opinione pubblica democraticamente informata e partecipe. A chi appartiene il PNRR? E quali sono i suoi criteri decisionali? E a quando i nodi da risolvere del Sud, dell’Italia profonda, delle diseguaglianze, delle aree interne, delle razionalizzazioni basate su digitalizzazioni che promettono partecipazione ed efficienza mentre crescono le esperienze di esclusione dalla accessibilità-fruibilità dei servizi delle popolazioni fragili? Dove sono scomparsi, o chi ha in mano, i piani per la popolazione anziana “sacrificata” dal Covid, e a cui sono state promesse priorità di cura e domiciliarità personalizzata? Che ne sarà delle promesse di continuità gestionale e amministrativa tra organi-attori-dati sanitari e socioeconomici, tra un pubblico sempre più in affanno e un privato in prima linea per l’assegnazione di commesse e di attenzioni? Quando arriverà il tempo della trasparenza economica, politica, culturale per la gestione del PNRR? Nessun rischio di discriminazione e di incostituzionalità in questa gestione clandestina del futuro? Nessuna mobilitazione, più o meno pacifica?
Attraverso tutte le cronache e le analisi (più o meno superficiali) che hanno accompagnato la “sorpresa” della presa del potere da parte dei barbuti studenti coranici, l’Afghanistan si è rivelato come un fenomeno globale: incrocio della decadenza dell’impero USA, del destino di guerra al servizio dei mercati militari assegnato a una regione strategica per il controllo delle politiche energetiche, dell’ennesima “catastrofe umanitaria” rispetto alla quale le Nazioni Unite riescono al massimo a dirsi “preoccupate” e ad esprimere raccomandazioni. Al di là dei ponti aerei mirati a popolazioni selezionate, la risposta dell’Italia e dell’Europa è stata molto semplice: noi non c’entriamo, la solidarietà non può spingersi a cambiare la nostra agenda sui migranti (dallo ius soli ai corridoi umanitari), sul rispetto del diritto internazionale, sulla vendita di armi: l’unico investimento immediatamente e legalmente permesso è quello per la costruzione in tempi record di muri. Una diagnosi trasversale, chiara, esplicita di quanto succede come nostra responsabilità, e come espressione della crisi, lunga anni, della nostra civiltà, e perciò come imperativo di una politica capace almeno di pensare a un cambio di paradigma, è rimasta fuori dall’ordine del giorno delle analisi e ancor di più delle discussioni dei vari ministri degli Esteri, o della Difesa, per non parlare della economia e del diritto.
Un altro acronimo è rimasto fuori da quelli ricordati nel titolo, in quanto è apparso-scomparso dalle cronache di queste settimane: G20. L’Italia è presidente di turno e coordinatrice di questo gruppo che si è dato il compito di raccontare e ordinare la storia degli umani dall’alto in basso: tutti i top 20 sono coinvolti negli scenari sopra ricordati, anche in quello che distrae, con le chiacchiere sui green pass, dalla crisi umanitaria del mercato dei vaccini, teatro di guerra per tutti i paesi in cui le controversie riguardano non la terza, ma la prima dose. E che non hanno accesso, nemmeno nell’immaginario, a qualsiasi lontano parente di un PNRR. E che assomigliano, nei più diversi modi, ai paesi di cui l’Afghanistan rappresenta in questo momento il modello esemplare.
L’ipotesi di questa riflessione era di essere un pro-memoria del fatto che viviamo in un mondo capovolto nei suoi termini di riferimento: patas arriba (sottosopra), lo definiva E. Galeano nei suoi testi in cui riassumeva il destino dei paesi incapaci di memoria, e perciò destinati ad essere «vene aperte per l’estrazione della vita» da parte dei padroni-narratori della storia in una logica intoccabile di top-down, e che pretendono per sé il privilegio di una clandestinità delle decisioni molto simile a quella dei PNRR, o dell’Europa sui diritti umani dei migranti da tutte le guerre. La verità ‒ si dice ‒ è la prima obbligatoria vittima di tutte le guerre. La cronaca che stiamo vivendo è un esercizio di non-verità. Atteso dai G20, dalla NATO, da tutti i top-down. Si potrebbe, o si poteva, sperare in una resistenza-resilienza da parte dei responsabili “indipendenti” dell’informazione. La prigione di J. Assange, entrata anch’essa nella cronaca di queste settimane, non fa molto sperare. I resistenti sono quelli che non si affidano alla resilienza, cioè al tornare al punto di partenza. Non si vedono molto. Ci sono. Da tante parti. Minoranze. Che non possono credere alla “sostenibilità” promessa dai modelli di sviluppo misurati sui PIL. Continuano a credere che valga la pena resistere e continuare a essere umani nel guardare-vivere le cronache di cui si è parte.