1.
Il 27 aprile, in un’operazione immaginificamente definita “Ombre rosse”, sono stati arrestati a Parigi sette italiani (a cui se ne sono aggiunti altri due, costituitisi il giorno successivo) riparati in Francia per sottrarsi all’esecuzione di pesanti condanne per delitti risalenti ai cosiddetti “anni di piombo”. Tra loro, diversi per storie e responsabilità, alcuni personaggi noti come Giorgio Pietrostefani (già esponente di Lotta Continua, condannato per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi), Raffaele Ventura (condannato per l’omicidio del brigadiere Antonio Custra durante una manifestazione a Milano nel maggio 1977), Roberta Cappelli, Marina Petrella e Sergio Tornaghi (già appartenenti alle Brigate rosse, condannati all’ergastolo, tra l’altro, per diversi omicidi). Dopo la comparizione davanti al giudice, gli arrestati sono stati posti in libertà (talora con obblighi) in attesa della definizione della procedura per l’estradizione in Italia, ma l’operazione ha comunque suscitato reazioni vivaci e di segno opposto. Da una parte ci sono state scomposte manifestazioni di giubilo, analoghe a quelle che hanno accompagnato, due anni fa, l’estradizione in Italia di Cesare Battisti (https://volerelaluna.it/controcanto/2019/01/16/larresto-di-cesare-battisti-il-senso-della-pena-la-dignita-della-persona/). Dall’altra è parso che l’orologio della storia sia tornato indietro facendo riemergere affinità politiche e sodalizi ormai privi – da lungo tempo – di un oggetto sociale condiviso. In ogni caso si sono attivati meccanismi di rimozione o di identificazione (con questa o quella parte politica, con alcuni dei condannati, con le vittime) che hanno condizionato l’analisi, nuocendo alla lucidità delle valutazioni e talvolta finanche alla ricostruzione dei fatti. Non è la prima volta che ciò accade. Era avvenuto, da ultimo, in occasione della ricordata estradizione dal Brasile di Cesare Battisti. Ma, anche alla luce di quella esperienza, occorre ragionare in modo laico, prescindendo dalle simpatie o antipatie per l’uno o l’altro dei personaggi coinvolti, a diverso titolo, in questa operazione.
Come sempre, conviene cominciare dai fatti. I delitti di cui alle condanne in esame risalgono ‒ tutti ‒ al periodo compreso tra il 1972 e il 1981 e, dunque, a oltre quarant’anni fa. La maggior parte dei condannati è stata ritenuta responsabile di gravi delitti di sangue (non tutti, in verità, anche se la vulgata mediatica ha cancellato ogni distinzione). Molti hanno subìto, prima di riparare in Francia, periodi più o meno lunghi di detenzione. Tutti hanno oltre 60 anni, il più vecchio ne ha 78. Tutti hanno ottenuto asilo in Francia in base al cosiddetto “lodo Mitterand” che, dal 1985, aveva garantito accoglienza ed escluso l’estradizione per «i rifugiati italiani che, avendo preso parte in azioni terroristiche prima del 1981, hanno rotto i legami con la macchina infernale a cui hanno partecipato, hanno iniziato una seconda fase della loro vita e si sono integrati nella società francese». Prima dell’odierna abrogazione di fatto, il lodo Mitterand ha subìto, nel corso degli anni, modifiche e attenuazioni, tanto che alcuni dei condannati coinvolti nell’operazione odierna sono già stati sottoposti a procedure di estradizione, pur rimaste senza esito.
Nella vicenda non ci sono stati orientamenti nuovi della magistratura o del Governo italiano che, fin dagli anni Novanta, ha inoltrato le richieste di estradizione (sostanzialmente obbligate, data la gravità dei fatti) alle autorità francesi, sollecitandole poi periodicamente e, da ultimo, in un colloquio della ministra della giustizia con il suo omologo d’oltralpe. Le novità sono, piuttosto, altre. Anzitutto il revirement del Governo francese, riconducibile, da un lato, al mutato clima politico interno (assunto, con un cinismo dimentico di affidamenti forniti negli anni, come stella polare delle decisioni anche in materia di giustizia) e, dall’altro, alla spinta europea – e non solo – verso l’omogeneità delle politiche penali degli Stati (fonte, tra l’altro, di convenzioni e trattati che escludono dalla sfera dei delitti politici, per i quali l’estradizione non è consentita, il genocidio e il terrorismo). E, in secondo luogo, il mutare dei rapporti tra Governo italiano e Governo francese sottolineato, un po’ a sorpresa, da un autorevole penalista italiano sul giornale che più si è speso nella critica all’operazione “Ombre rosse”: «l’aspetto più significativo dell’intera vicenda riguarda […] il più generale versante delle relazioni politico-istituzionali tra due importanti paesi europei: in altre parole, non è senza importanza che la Francia sia ormai disposta a riconoscere che pure l’Italia ha le carte in regola come Stato di diritto» (G. Fiandaca, Cosa ve ne fate? Gli arresti in Francia e due scuole a confronto, Il Foglio, 4 maggio).
Un ultimo rilievo in fatto. Gli arresti e la comparizione davanti al giudice francese non hanno nulla di definitivo. Comincia ora infatti – e si protrarrà a lungo, verosimilmente per anni – l’iter giudiziario davanti ai giudici francesi per valutare l’esistenza o meno delle condizioni per l’estradizione in Italia di tutti o di alcuni dei condannati riparati a Parigi.
2.
La situazione così sommariamente descritta impone alcune considerazioni.
C’è, anzitutto, una domanda: «È fondata l’intervenuta concessione di asilo politico, in presenza di condanne per gravissimi fatti di sangue, pronunciate all’esito di diversi gradi di giudizio nel nostro Paese?». Chi lo sostiene lo fa – né potrebbe essere altrimenti – affermando che l’asilo politico concesso pone rimedio a condanne da considerarsi ingiuste perché viziate da pregiudizio politico e da gravi violazioni di garanzie processuali nel corso dell’iter che le ha precedute. È questa, in particolare, la posizione di alcuni ex aderenti a Lotta Continua che, muovendo dalla critica alla condanna di Pietrostefani, estendono questo giudizio, grazie a un’anomala proprietà transitiva, a tutte le condanne. È una posizione che non può essere condivisa. La sentenza di condanna di Sofri, Bompressi e Pietrostefani per l’omicidio del commissario Calabresi, fondata com’è sulle dichiarazioni di un pentito accompagnate da molte smentite e poche conferme, presenta molte, moltissime, ombre, evidenziate anche dalla diversità degli esiti che l’hanno preceduta (con l’alternarsi di condanne, assoluzioni e motivazioni suicide). Nella stagione giudiziaria degli anni Settanta e Ottanta ci sono state, sia sul piano legislativo che nella prassi applicativa, rilevanti cadute di garanzie che hanno inciso, in particolare, sulla dilatazione delle responsabilità a titolo di concorso e sull’entità delle pene inflitte e che proiettano ancora oggi la loro ombra lunga. Più in generale, la delega ai magistrati della ricostruzione della storia del terrorismo e dei suoi antefatti è stata certamente riduttiva e ha finito per mettere in secondo piano vicende e fatti rimasti impuniti o non indagati: il terrorismo nero anzitutto (almeno in gran parte) e le responsabilità dello Stato nella strategia della tensione (dalle bombe di piazza Fontana alla morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato da una finestra della Questura di Milano dove era trattenuto, come troppi dimenticano, illegalmente e senza titolo). Tutto questo legittima critiche anche aspre, denunce di omissioni e insufficienze, contestazioni per il mancato affiancamento alle decisioni giudiziarie di iniziative politiche tempestive per chiudere, anziché rimuovere, quella stagione. Ma non vale a incrinare – e tantomeno a travolgere – l’attendibilità, nella stragrande maggioranza dei casi, degli esiti giudiziari raggiunti (come confermano le, pur tardive, ammissioni di chi per molti anni li ha contestati: e il riferimento a Cesare Battisti non è casuale). E, allo stesso modo, non vale a modificare il giudizio storico, etico e politico su una stagione che non ha semplicemente visto vincitori e vinti (o, se si preferisce, ragioni e torti) ma, soprattutto, ha conosciuto una caduta del senso di umanità e di dignità della persona che ha sopravanzato e infranto ideali e valori e che non consente rimozioni e impunità. Per questo la contestazione frontale dell’operazione “Ombre Rosse” non convince ed è fonte di pericolose confusioni di piani.
3.
Questo giudizio, esplicito e netto, non chiude, peraltro, la questione posta dagli arresti di Parigi, che resta più che mai aperta e richiede approfondimenti sia con riferimento al caso specifico che in termini generali.
Diversi i profili coinvolti, che hanno in comune il senso della pena in una società civile e democratica.
Il primo profilo si può riassumere così: «Ha senso punire, potenzialmente senza fine (nel caso di condanna all’ergastolo), persone che hanno commesso i delitti per cui hanno riportato condanna, 40 o 50 anni prima, che hanno scontato più o meno lunghe carcerazioni e che hanno smesso di delinquere, si sono rifatti una vita, sono ormai vecchi e sono, in sintesi, diventate altre?». La questione trascende il caso specifico e si ripropone non di rado, seppur in casi meno eclatanti di quello in esame (non essendo infrequenti le condanne diventate definitive dopo 10 o 15 anni dai fatti o gli arresti per condanne risalenti e dimenticate di persone rientrate in Italia dopo decenni). È il tema del rapporto tra il tempo e la giustizia, che si propone in molte eterogenee situazioni (basti pensare alle questioni della prescrizione e del cosiddetto ergastolo ostativo) e che non può essere accantonato con sufficienza, almeno da chi crede che la pena non sia solo retribuzione (cioè risposta al male con altro male) ma debba, coerentemente con il disposto dell’articolo 27 comma 3 Costituzione, tendere al reinserimento sociale del condannato (e perda, conseguentemente, gran parte della sua ragion d’essere quando quel reinserimento è già intervenuto). Tema certamente delicato, ma non esorcizzabile richiamando strumentalmente le ragioni delle vittime (che avrebbero bisogno di sostegno e di percorsi di riconciliazione assai più che di vendetta) e, comunque, centrale in una società interessata a promuovere condizioni di convivenza che non rimuovano i fatti ma prestino attenzione alle persone (per realizzarsi compiutamente e non per fare concessioni ai suoi nemici, come ebbe a dire molti anni fa, in uno dei momenti più caldi del terrorismo, Pietro Ingrao: Lotta al terrorismo e trasformazione dello Stato, Torino 3 maggio 1979).
Il secondo, più specifico, profilo riguarda proprio i cosiddetti terroristi rossi. Quel terrorismo, sanguinoso e folle, in cui sono stati immersi è finito per sempre, condannato dalla storia e disconosciuto, seppur con diversa intensità, dai suoi stessi protagonisti e comprimari. È una storia del secolo scorso, le cui ultime appendici (isolate e disperate) si sono chiuse, anch’esse, da due decenni. Se mai – Dio non voglia – una nuova ventata terrorista dovesse abbattersi sul Paese sarebbe un fenomeno del tutto diverso da quello delle Brigate Rosse degli anni Settanta e delle formazioni affini: non solo per attori e comparse, ma anche per cultura, per radicamento sociale, per modalità operative, per obiettivi. E, dunque, la punizione esemplare di chi ne è stato protagonista ha perso buona parte delle sue motivazioni anche in termini di prevenzione generale, di disincentivazione, cioè, di scelte analoghe.
4.
Per queste ragioni il discorso sul “che fare” da parte dello Stato e dei suoi giudici nel caso in cui i latitanti parigini dovessero essere estradati in Italia non può essere considerato chiuso e richiede, al contrario, un dibattito non rituale. Non si tratta di evocare amnistie o provvedimenti di clemenza (che avrebbero avuto senso, a certe condizioni, vent’anni fa, ma che sarebbero oggi, oltre che politicamente impraticabili, superati dai fatti e sostanzialmente inutili) ma di cogliere l’occasione per una rinnovata riflessione sul senso della pena e della giustizia e per decisioni coerenti anche nell’ambito della normativa vigente.