Lessico familista. A margine del caso Feltri-Boldrini

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«In casa d’altri»: è tutto in questa, tritissima, espressione il senso dell’istruttiva vicenda che ha visto come protagonisti Mattia Feltri e Laura Boldrini.

I fatti: l’ex presidente della Camera carica sul suo blog dell’Huffington Post un post in occasione della Giornata contro la violenza sulle donne. Un solerte redattore segnala al direttore che nel testo c’è una frase che riguarda Vittorio Feltri. Il quale direttore chiama la Boldrini, e le chiede di cancellare quello che poi definirà «un apprezzamento spiacevole su mio padre Vittorio». Boldrini non accetta la richiesta di autocensura, e avverte Feltri figlio che renderà la questione di dominio pubblico. Il direttore reagisce bloccando il post, che non esce. Quando Boldrini fa ciò che aveva annunciato, il direttore diffonde un comunicato che si chiude con queste parole: «Al pari di ogni direttore, ho facoltà di decidere che cosa va sul mio giornale e che cosa no. Se questa facoltà viene chiamata censura, non ha più nessun senso avere giornali e direttori. Oltretutto l’onorevole Boldrini, come altri, su HuffPost cura il suo blog. Quindi è un’ospite. E gli ospiti, in casa d’altri, devono sapere come comportarsi». Poche ore dopo, Laura Boldrini pubblica su Facebook il suo post. Eccone il passaggio dedicato al padre del figlio: «Si chiama victim blaming. Ed è parte, grande, del problema, rispetto a cui il ruolo dell’informazione è centrale. E mi riferisco polemicamente a quei giornali che fanno di misoginia e sessismo la propria cifra. Cosa dire del resto dell’intervento di Feltri su Libero, in cui si attribuiva la responsabilità dello stupro non all’imprenditore Genovese ma alla ragazza diciottenne vittima?». Seguono altri interventi dei due protagonisti, e un coro di commenti nel quale, salvo poche lodevoli eccezioni (tra le quali spicca il presidente dell’Ordine), i giornalisti sono insorti in difesa non della libertà di espressione, ma dell’autorità del direttore, teorizzando in coro che «un giornale non è una buca delle lettere», trincerandosi, a sproposito, dietro l’ovvietà per cui è preciso compito del direttore decidere cosa pubblicare e cosa no.

Le opinioni, ora.

Credo che si tratti di una storia illuminante: perché illumina con inconsueta efficacia molte delle patologie del nostro sistema dell’informazione. Cioè della nostra democrazia.

C’è lo sfruttamento del precariato, l’uso autoritario del lavoro gratuito: il blog non è pagato, dunque sei un ospite, dunque attento a come ti muovi «in casa altrui». Ma non è il giornale che fa un favore ai blogger: senza di essi l’Huffington non sarebbe l’Huffington. Anche da un punto di vista economico: basta vedere la quantità di pubblicità di cui questi blog gratuiti sono infarciti.

C’è il familismo incallito: la concentrazione del potere in poche mani, tra loro strettamente connesse da vincoli di sangue, di amicizia, di casta. Siamo un paese oligarchico: nella distribuzione della ricchezza, nell’informazione, nella politica.

C’è il dominio maschile. Io non so, e francamente preferisco non sapere, se Feltri Figlio condivida o meno l’osceno articolo di Feltri Padre citato dalla Boldrini. Ma so che di fronte all’enorme questione della violenza sulle donne, egli ha scelto di concentrarsi su un dettaglio che riguardava il Padre, coprendolo. Una linea patriarcale di comando, un club maschile solidale, la direzione come eredità e predestinazione.

Infine, c’è la concezione proprietaria, o meglio padronale, di un organo di informazione. In queste ore, soprattutto sui social, è montata la retorica del direttore come comandante di una nave: un uomo (un maschio) solo al comando. Un giornale, si dice con malcelato godimento, non può essere democratico: è una monarchia. Ma di quelle assolute, intendono: dove non si deve dar conto a nessuno delle decisioni del monarca.

Ma, tra una buca delle lettere (espressione, colma di disprezzo per i “mittenti”, che mi sono sentito rinfacciare da molti direttori che censuravano miei pezzi) e una caserma c’è la via di mezzo di un giornale inteso proprio come comunità democratica di lavoratori con pari dignità. Una comunità in cui il direttore non è sciolto da ogni regola, né può farsi guidare da conflitti di interesse, legami personali o interessi privati.

Naturalmente il direttore deve decidere (magari con i suoi vicedirettori, con la sua redazione: non necessariamente da solo), bilanciando ogni volta gli interessi in campo. Ma la domanda è: quale peso, in questo bilanciamento, viene assegnato al diritto costituzionale della libertà di espressione? Le parole di Laura Boldrini su Feltri Padre erano continentissime, perfettamente in tema e direi necessarie. Ed anzi utili all’Huffington Post: perché permettevano di evitare, a ottimo prezzo (vista l’estrema mitezza della formulazione) ogni sospetto di copertura familista. Ma, e questo è il punto, a Feltri Figlio non importava proprio nulla di simili sospetti: anzi, egli ha sfrontatamente sfoggiato la sua prima fedeltà. Non quella all’etica della professione, alla libertà di espressione, all’esibita lontananza anche solo dal sospetto del conflitto di interesse: al contrario, la fedeltà al clan, al genere, al potere.

Molti direttori di giornale in Italia vedono così il proprio lavoro. L’ho imparato nei molti giornali per cui ho scritto: mi è capitato che fosse rimosso un post in cui criticavo un marchio che era anche sponsor della testata che ospitava quel blog. Di vedermi rifiutare pezzi perché critici verso sindaci, presidenti del consiglio, ministri “amici” del direttore. Di vedermi chiedere la soppressione di battute in trasmissioni televisive, perché criticavano l’azienda televisiva.

Per fortuna ho incontrato anche direttori che non lo farebbero mai, e che rispettano religiosamente la libertà degli editorialisti che donano forza e autorevolezza alle loro testate. Direttori che non devono certo accettare sempre tutto: ma che dialogano con apertura e attenzione, arrivando a decisioni condivise. E soprattutto che non interverrebbero mai per fatto o interessi personali.

Ma la maggioranza la pensa come Feltri: in un Paese in cui gli spazi del dissenso si restringono ogni giorno, e in cui le querele penali e soprattutto civili sono usate come una museruola capace di chiudere la bocca al pensiero critico. Esattamente come l’università è stata massacrata in primo luogo dai suoi professori, così la libertà dei giornali è stata smontata in primo luogo dai giornalisti.

Per questo è importante reagire (come ha fatto Laura Boldrini) contro la mutazione della responsabilità in potere, della direzione in dispotismo, del vaglio in censura: perché i padroni di casa dei giornali (per usare la metafora, appunto padronale, del direttore targato Fiat dell’Huffington Post) sono i lettori, non i direttori.

Gli autori

Tomaso Montanari

Tomaso Montanari insegna Storia dell’arte moderna all’Università per stranieri di Siena. Prende parte al discorso pubblico sulla democrazia e i beni comuni e, nell’estate 2017, ha promosso, con Anna Falcone l’esperienza di Alleanza popolare (o del “Brancaccio”, dal nome del teatro in cui si è svolta l’assemblea costitutiva). Collabora con numerosi quotidiani e riviste. Tra i suoi ultimi libri Privati del patrimonio (Einaudi, 2015), La libertà di Bernini. La sovranità dell’artista e le regole del potere (Einaudi, 2016), Cassandra muta. Intellettuali e potere nell’Italia senza verità (Edizioni Gruppo Abele, 2017) e Contro le mostre (con Vincenzo Trione, Einaudi, 2017)

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5 Comments on “Lessico familista. A margine del caso Feltri-Boldrini”

  1. La questione non è semplice perché Feltri ha ragione in linea di principio e torto nel caso specifico. Il direttore del giornale ha facoltà di rifiutarsi di pubblicare un articolo: se non esistesse questa facoltà i giornali si riempirebbero di commenti e articoli negazionisti, razzisti, neo nazisti, etc. Proprio perché la funzione di controllo del direttore è questa, usarla per “proteggere” da legittime critiche il proprio padre non è corretto.

    1. Milioni di grazie a Tomaso, perchè ha messo in ordine una sfilza di ragioni per cui (eufemismo) S. Feltri ha torto. Io non ci riuscirei proprio: di fronte a cotante oscenità, non metterei in ordine i mille pensieri e mi sfuggirebbero soltanto improperi impubblicabili.
      In casi come questi, più che “linea di principio” direi “spazio vitale”. Quello di Hitler, naturalmente senza le armate e i campi di sterminio (quelle basta lasciarle accadere nella storia, non serve comandarle direttamente). Un direttore come questi, magari “buono” secondo il giudizio che ne vien fuori dai salotti, cura il proprio orticello cercando di farlo sempre più ampio… soprattutto quando il suo terreno perde in fertilità. Chi va a trovarlo con una certa continuità magari mangia delle primizie naturali, ma non può dirsi contento e non è sicuro di curare la propria salute, perchè a tavola e in salotto vengono fuori certi discorsi… da farsi rodere il fegato.
      Se è capitato alla Boldrini che di suo è tollerantissima, figuriamoci…
      Io sottolineerei comunque un’attenzione, che non tutti purtroppo hanno: quando si è “invitati in casa d’altri” (una testata, una trasmissione, ecc.) la prima regola NON è quella di rispettare le richieste del “padrone di casa”.
      Direi di più. Le richieste indigeribili sono le prime a dover essere dette al pubblico. Invece, per molti pare sia meglio glissare, perchè: si fa la figura di chi vola più alto (rispetto ai bombardieri dico io, sotto si muore intanto), si rispetta chi c’ha fatto il piacere d’invitarci (e invece è il padrone di turno, il piacere è tutto suo, l’invitato è solo il lavoratore a chiamata seppur ben pagata), si può discretamente contare su future collaborazioni.
      Se queste attenzioni non le hanno gli “invitati” più benestanti, come si può pretendere che le abbiano i precari?

      1. ATTENZIONE Matteo Feltri, figlio di Vittori Feltri, direttore di Huffington Post, non Stefano Feltri, solo omonimo, direttore di Domani, sarebbe bene correggere.

  2. Lodevole.
    Come mai allora questo suo scritto si legge qui e non sul Fatto Quotidiano (articolo o blog visto che può agire su entrambi)?

  3. Io credo che nello specifico il giovane Feltri abbia agito con giustizia, per almeno due ragioni.
    La prima è che un “giornale”, sia esso informatico o cartaceo, non deve ospitare attacchi diretti ad un altro giornale o ad un giornalista in particolare, trattando d’un argomento “generale”; casomai citare i giornali e i giornalisti (e nel caso discusso gli esempi non sarebbero mancati in gran numero).
    La seconda è che Boldrini potrebbe aver intenzionalmente scelto di attaccare Feltri senior proprio sull’HP perché il direttore di questo è Feltri junior: la considerazione si commenta da se…

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