La “libertà di stampa” e i suoi padroni

Volerelaluna.it

25/04/2020 di:

Il traumatico cambio di direzione a Repubblica è un evento la cui portata supera l’ambito del giornalismo, ma investe interamente la democrazia in Italia.

Innanzitutto per il modo in cui è avvenuta. La perentoria, immediata affermazione del diritto della proprietà di imporre al giornale non solo la persona di un direttore ma una linea politica rende manifestamente chiara la drammatica restrizione dello spazio di un possibile giornalismo critico. Il giornale trattato come una qualunque azienda di famiglia: ma nella piena consapevolezza che non è una qualunque, perché è evidente che la decisione di investire su Repubblica si deve all’aspettativa di un immediato ritorno in termini di propaganda.

La scelta della data, poi, è addirittura indegna. Oscure minacce annunciavano da settimane che il 23 aprile sarebbe avvenuta l’esecuzione fisica del direttore Carlo Verdelli: il fatto che si sia scelto proprio quel giorno per celebrarne l’esecuzione professionale lascia semplicemente sconcertati, e apre mille inquietanti interrogativi. In ogni caso è chiaro che si voleva che nella data simbolo del 25 aprile l’editoriale del nuovo direttore annunciasse il ribaltamento di linea.

Perché è questo che è avvenuto. Intendiamoci, da molto tempo la sinistra (per esempio quella che si riconosce in Volere la Luna) non pensa che Repubblica sia un giornale di sinistra. Ma se fino a ieri questa mutazione risultava in opposizione con i valori originali della fondazione del giornale, e rappresentava dunque una contraddizione evidente, da oggi quei valori sono stati ufficialmente cestinati. Se qualcuno avesse avuto dubbi, lo legga, quel primo editoriale. Parole vuote e generiche sulla Liberazione, lingua da burocrate aziendale (si annunciano «contenuti competitivi»), un giudizio desolante sulle diseguaglianze (che sarebbero «uno stato d’animo», frutto del «salto tra rivoluzione industriale e rivoluzione digitale»), invocazione finale all’avvento di «una nuova generazione di leader» che interpreti «l’urgenza del fare». Un testo che – per toni e contenuti – appartiene alla cultura di una destra conservatrice di establishment. Un testo che potrebbe benissimo essere un discorso del Berlusconi del 1994.

La scelta di Maurizio Molinari cambia, è evidente, il campo di Repubblica. Il nuovo direttore, uomo fidato di casa Agnelli, è un convinto atlantista, sostenitore della “missione americana” incarnata dal George W. Bush del dopo 11 Settembre. Un ossequioso difensore del blocco di interessi dell’oligarchia nazionale, e in particolare torinese, come apparve in modo perfino imbarazzante all’indomani della manifestazione delle Madamine per il Tav, celebrata dalla Stampa diretta da Molinari con toni da regime totalitario. Memorabile l’editoriale del direttore che vedeva in quella piazza organizzata da pezzi della borghesia torinese, organizzazioni confindustriali e vecchi berlusconiani «un’Italia di donne e uomini, famiglie etero e gay, impiegati e operai, studenti, pensionati ed artigiani che non ama gridare ma fare». Questo il pantheon ideale di quella piazza, e del nuovo, plaudente, direttore di Repubblica: «i simboli di Torino: la gigantografia di Cavour, i cartelli sui piemontesi europei, gli applausi per Pininfarina e Marchionne, il canto finale dell’inno di Mameli e una piazza senza neanche una carta in terra quando la folla se ne va. Con la schiena diritta».

Ecco, la “schiena diritta” è qualcosa che non ci si dovrà aspettare, nella direzione che nasce. Molinari viene promosso a dirigere Repubblica nonostante che a lui si debba il seppellimento della Stampa: presa a 244.000 copie di tiratura e 146.000 vendute e lasciata a 160.000 di tiratura e 89.000 vendute. E nonostante alcune macchie imbarazzanti (per un direttore che dovrebbe essere in grado di denunciare le mende della tutt’altro che impeccabile classe dirigente italiana): come per esempio l’esteso plagio del suo libro Il Califfato del terrore. Perché lo Stato Islamico minaccia l’Occidente.

Ora, è piuttosto evidente che se, nonostante ciò, Molinari ascende alla guida di Repubblica è perché da lui non si attende successo editoriale o originalità di giornalismo: ma obbedienza ai padroni. E questa è una pessima notizia per tutti noi, anche per quelli che da anni hanno smesso di leggere Repubblica.