La prescrizione vale una crisi di governo?

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Il dibattito sulla prescrizione è diventato sempre più incandescente, al punto da mettere in discussione la tenuta della maggioranza di governo, sferzata dalla contestazione di “Italia viva” che, assieme ai partiti di centrodestra, vorrebbe annullare la riforma Bonafede che ha introdotto il blocco del decorso della prescrizione dopo la pronuncia della sentenza di primo grado.

Non v’è dubbio che la soluzione adottata dal legislatore pentastellato nell’ambito di un provvedimento enfaticamente denominato “spazza corrotti” sia una norma bandiera del populismo applicato al diritto penale. Vale a dire dell’uso ideologico degli strumenti del diritto penale per costruirsi un facile consenso popolare. Tuttavia la drammatizzazione che ne viene fatta da soggetti politici, pur sempre interessati a mantenere in vita degli spazi di impunità, non è il modo migliore per venire a capo dei dilemmi che pone il nodo della prescrizione in relazione al rapporto fra i poteri dello Stato e i diritti delle persone.

A questo proposito non aiuta la corruzione del linguaggio che viene portata avanti nel dibattito corrente. Parole come “garantismo” o “giustizialismo” non hanno alcun senso in quanto troppo spesso sono state evocate per mascherare una rivendicazione di impunità del ceto politico-affaristico insidiato dalla crescente capacità di controllo esercitata dall’autorità giudiziaria, ma servono soltanto ad attivare opposte tifoserie. Bisogna, dunque, uscire dalle banalizzazioni per andare alla sostanza del problema: che rapporto c’è fra il potere/dovere punitivo dello Stato, il decorso del tempo e i diritti individuali?

Tranne che per i reati più gravi (l’omicidio, la strage, i crimini di guerra), il decorso del tempo fa venire meno l’interesse dell’ordinamento a procedere alla punizione dei responsabili dei fatti-reato. È un fatto obiettivo, non dipende dall’apprezzamento dei diritti dell’individuo. Infatti anche il legislatore fascista, che certamente non considerava i diritti individuali come limiti al potere dello Stato, aveva previsto come causa generale di estinzione del reato (cioè di non punibilità) il decorso di un certo spazio temporale dal fatto, variabile a seconda della gravità dell’illecito.

La norma che regolava la prescrizione è rimasta in vigore dal 1930 fino al 2005, quando il Governo Berlusconi ha introdotto una disciplina double face che comportava una diminuzione dei termini di prescrizione per la generalità dei reati commessi dai colletti bianchi (le persone perbene) e un allungamento per i reati commessi dai recidivi (le persone permale). Combinando gli effetti della diminuzione dei termini di prescrizione con quelli derivanti dalla complessità del processo penale, governato da un alto livello di garanzie, il risultato è stato la creazione di uno spazio di impunità di fatto soprattutto per i reati dei colletti bianchi (che pure, almeno in alcuni casi, sono estremamente dannosi per la collettività) e ha incoraggiato l’uso improprio delle garanzie processuali per allungare i tempi del processo. Così nel giugno 2017 la cosiddetta riforma Orlando ha approntato dei rimedi e, per i reati di corruzione, i termini sono stati allungati. Ciò dopo che, con precedenti riforme, erano stati raddoppiati i termini ordinari di prescrizione per molti reati di allarme sociale come quelli di violenza sessuale.

La riforma Orlando non è ancora andata a regime, applicandosi ai fatti commessi a partire dal 3 agosto 2017, per cui non è stato possibile sperimentarne l’effetto. Ciò rende del tutto immotivato l’intervento di Bonafede che ha sterilizzato il decorso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. La pretesa di ridurre i tempi del processo penale per evitare il paradosso di avere delle persone imputate a vita, poi, è un’emerita sciocchezza: sia perché non si possono ridurre i tempi salvaguardando le garanzie, sia perché i tempi del processo dipendono da una serie di fattori che non sempre possono essere governati.

In ogni caso non si può sfuggire dal dilemma di quali siano nei confronti dell’individuo i caratteri del potere punitivo dello Stato, se questo potere debba essere assoluto, come pretendono i fautori del populismo penale, ovvero se vi si debba riconoscere un limite di ragionevolezza legato al decorso del tempo.

La severa critica della riforma Bonafede non giustifica, però, la fibrillazione in atto in sede politica perché gli effetti reali del prolungamento della punibilità nel tempo si comincerebbero a sentire non prima del giugno 2027, quando maturerebbe la prescrizione (secondo il vecchio regime) per i delitti meno gravi commessi a partire dal 1° gennaio 2020. Questo ci porta a diffidare della buona fede di tanti difensori interessati dello Stato di diritto.

Gli autori

Domenico Gallo

Domenico Gallo, magistrato è stato presidente di sezione della Corte di cassazione. Da sempre impegnato nel mondo dell’associazionismo e del movimento per la pace, è stato senatore della Repubblica per una legislatura ed è componente del comitato esecutivo del Coordinamento per la democrazia costituzionale. Tra i suoi ultimi libri "Da sudditi a cittadini. Il percorso della democrazia" (Edizioni Gruppo Abele, 2013), "Ventisei Madonne Nere" (Edizioni Delta tre, 2019) e "Il mondo che verrà" (edizioni Delta tre, 2022).

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