Quelli che “le sardine sono solo fuffa” sono serviti. Insieme a quelli che si passavano di bocca in bocca il vecchio adagio “piazze piene, urne vuote”, come fosse la profezia del mago di Oz. O che ne scrutavano i comunicati come fossero atti notarili alla ricerca delle parole incerte o dei temi mancanti. Invece lo dobbiamo proprio a loro, alle sardine, o meglio a quelle piazze piene sorridenti e cantanti, se oggi lo scenario italiano è meno tetro, e se la democrazia costituzionale ha guadagnato un po’ di tempo. Se, cioè, il piano di destabilizzazione totale di Matto Salvini non è riuscito.
Il progetto del Capitano di questa inedita Compagnia di ventura che si muove con la logica dell’occupazione fisica dei territori per usarli come clava per la conquista dei “pieno poteri” era chiaro, e dichiarato: “dare una spallata” al sistema politico-istituzionale italiano. Innescare un effetto domino che dalla Regione-simbolo del “potere delle sinistre” infine conquistata e annessa discendesse fino alla Capitale, a Palazzo Chigi, per risalire i sacri colli fino al Quirinale, costringere alla “convocazione dei comizi del popolo” e di lì mettere in discussione l’intero assetto istituzionale. Basta leggere i titoli della vigilia sulle prime pagine dei suoi house organs, “Libero” per esempio: Matteo si mangia tutto. In padella pure le sardine. O “il Giornale”: Domenica salta tutto (il 23 gennaio) e Citofonata a Conte, due giorni dopo, per capire le intenzioni e le smodate aspettative…
Non era – vorrei essere chiaro – il progetto “della Lega”. Era il progetto di Matteo Salvini, super-personalizzato come si addice al turbo-populismo di cui si è fatto interprete, frutto di un Ego ipertrofico che l’ha portato a concentrare bulimicamente l’intera campagna elettorale sulla propria persona, il proprio corpo, il proprio bomber Moncler, la propria barba barbarica, le proprie passeggiate in borghi e quartieri, e non importa che quelle fossero elezioni amministrative, che ci fosse una candidata (valida o meno che fosse), che ci si giocasse la guida di una regione fino ad allora ben governata (con politiche non certo di sinistra radicale, anzi persino un po’ di destra: si pensi all’autonomia differenziata). Non importava tutto questo, perché quello che intendeva fare era provocare un pronunciamento su se stesso, e sulla propria legittimazione a comandare. Ha voluto un referendum su se stesso. E lo ha perso. Come accade a chi non sa controllare il proprio Io (ricordiamo l’altro Matteo, il Renzi del 4 dicembre?). Ha provato a “dare la spallata”, e si è rotto la spalla. Contro uno zoccolo duro di “cultura urbana” (nel senso di civile, educata, rispettosa). Non contro un partito politico avversario, o un “candidato forte”. E nemmeno una “coalizione”. E neppure un movimento. Ma contro un sentire profondo, uno stato d’animo condiviso da tanti (abbiamo visto: dai più) che, anche trasversalmente, comunque consideravano insopportabile che si potesse “cadere così in basso” e cedere il passo a una forma di imbarbarimento della politica quale quella incarnata da quello “stile”.
Con metafora medica, potremmo dire che ancora per questa volta il sistema immunitario di questo Paese sia pur debilitato da un lungo ciclo di delusioni e deprivazioni è comunque scattato, e ha prodotto i propri anticorpi, con un meccanismo di alto rilievo politico ma di radicata origine più profonda, pre-politica potremmo dire, o fisiologica. Per questo la società politica farebbe bene a riflettere a fondo, prima di parlare, o cantar vittoria. Perché i problemi sono ancora tutti lì, insoddisfatti e feroci. Farebbe bene il Pd, in primo luogo, che pure può ben festeggiare questa “grazia ricevuta” insieme al suo candidato vincente, ma che non può nascondersi che governerà una Regione spaccata in due (il voto ci ha rivelato due Emilie Romagne, una delle città, l’altra delle province, due territori potenzialmente stranieri l’uno rispetto all’altro). Che la Calabria è stata una Caporetto. E che i prossimi mesi sono cosparsi di mine vaganti per la maggioranza di governo, presa tra la crisi strutturale degli alleati 5 Stelle (gli Stati generali sono un’incognita da Idi di marzo mentre i responsi sulla piattaforma Rousseau hanno rivelato un’incultura politica desolante) e l’ossessività impaziente di Renzi e dei renziani, specialisti della destabilizzazione, oltre alla forma attualmente proteiforme e indecisa dello stesso partito di Zingaretti. Tre entità tutte e tre in fibrillazione – alcune in possibile crisi di nervi – chiamate a tenere in piedi un Governo “necessario” se non si vuole regalare a Salvini domani quello che ha perduto oggi.
Serpeggiano, tra le pieghe dei talk show e gli editoriali dei grandi quotidiani, cattive sensazioni e peggiori suggerimenti, tra chi si affretta a decretare ipso facto il ritorno conclamato al bi-polarismo e chi testardamente continua a spezzar lance a favore di una resipiscenza verso il sistema elettorale maggioritario, come se la rondinella emiliana annunciasse una florida primavera riformista. Diciamolo subito: una riedizione del modello bipolare, sul tipo di quello voluto da Veltroni e Berlusconi nel 2008 sarebbe letale per la sinistra e sancirebbe una schiacciante prevalenza di una destra a trazione populista-sovranista. Una legge elettorale maggioritaria, o mista sul tipo del Rosatellum, regalerebbe alla Lega, concentrata territorialmente nelle regioni più popolose, una vittoria che con un proporzionale non si sognerebbe nemmeno.
Anche da questo punto di vista, per evitare abbagli ed effetti dopanti sarebbe meglio studiarselo bene questo voto emiliano – il voto “del miracolo” – nei suoi numeri e, soprattutto, nella sua articolazione geografica, guardando non solo le cifre aggregate (che ci dicono che Bonaccini ha preso 1.195.742 voti (il 51,4%), 181.070 in più della Borgonzoni, la quale si è fermata a quota 1.014.672), ma la loro disaggregazione territoriale. Osservando, insomma, non solo le tabelle ma anche le mappe (e i loro colori: YouTrend ha fatto un ottimo lavoro). Si scoprirà allora che la vecchia, cara “Emilia rossa” non esiste più. Che ora è “bi-colore”, una striscia densa ma stretta rossa (o rosa) e una superficie più ampia (molto più ampia in estensione, anche se più rarefatta demograficamente) verde (o blu, a seconda dei casi, se si privilegia il primo partito – nel caso la Lega – o la coalizione di centrodestra).
E’ sull’asse che va lungo la via Emilia, da Bologna verso Modena e Reggio nell’Emilia (si potrebbe prolungarli fino alla costa con Ravenna passando per Cesena, Forlì e Imola): è lì che Bonaccini ha vinto, costruendo il suo surplus (132.000 voti di distacco sulla Borgonzoni nel bolognese, due terzi del differenziale generale, 40.000 nel modenese, 43.000 nel reggino). All’opposto, sui “bordi” (nel Piacentino a ovest, nel ferrarese e nelle valli di Comacchio o nella riviera romagnola a est) e soprattutto nelle “aree interne” dell’appennino verso sud e sud est (Appennino ligure, tosco-emiliano, umbro-marchigiano), ha fatto il pieno la candidata di Salvini, anzi Salvini in prima persona (chi volesse controllarsi direttamente i dati sul sito del Ministero dell’Interno clicchi qui). E’ lungo le direttrici che portano ai passi (si veda la mappa), che la landslide, la “lenzuolata” verde, si distende compatta.
Prendiamo la Via degli Abati, che nel piacentino-parmense sale verso Bobbio (dove Borgonzoni ha dato 11 punti di distacco a Bonaccini) con la sua storica Abbazia, e registriamo i risultati nei comuni che ne scandiscono le tappe: a Bardi ha fatto il 74% contro il 24%; a Borgo Val di Taro 63 contro 33; a Caminata, Nibbiano e Pecorara, aggregati nell’Alta val Tidone, 69 a 28… Oppure scendiamo verso sudest, sulla strada che porta al Passo delle Radici per scendere attraverso la Garfagnana verso Lucca: a Piandelagotti Borgonzoni supera Bonaccini di 13 punti (55% a 42%), a Civago-Villa Minozzo di 16 (56% a 40%), a Pievepelago quasi di 40 (67% a 29%). Idem per Verghereto – sul Cammino di San Francesco che attraverso il passo di Viamaggio conduce verso l’aretino e Città di Castello – Borgonzoni fa un secco 65 a 32. Sono piccoli numeri rispetto a quelli delle città capoluogo, distanze abissali in percentuale ma poche decine o poche centinaia di voti in valore assoluto. E tuttavia la miriade di puntini verdi sulla mappa, a segnare i territori del margine, offrono una panoramica cromatica inquietante. In termini di “territorio” (di “estensione territoriale”) l’Emilia Romagna è più che per metà (forse per due terzi) “caduta”.
Tutto questo ci dice che la partita è tutt’altro che chiusa. E che il turbopopulismo salviniano, fermato sulla linea di resistenza della via Emilia, resta pericoloso e aggressivo, come la Bestia che lo anima. Per ora la sana reazione di rigetto da parte degli anticorpi emiliani ci ha salvati dal peggio. Non disperdiamo tutto ciò per ottusità o suprematismo di partito.
E’ la versione più ampia dell’articolo pubblicato sul Manifesto col titolo La spallata mancata del turbopopulista
Segnalo anche, a integrazione di questo articolo, l’analisi della distribuzione del voto in ER che ho pubblicato sul sito di TPI (The Post International): Cara sinistra non cantare vittoria: c’ è tutto un mondo che vota ancora Salvini.
la calabria non è stata una caporetto per il PD, primo partito, ma una dura sconfitta, Caporetto è stata la mancata risposta alle sollecitazioni a votare dell’elettorato calabrese, pigro e insensibile alla posta in gioco. Su 1.500.000 iscritti a votare sono andati alle urne poco più di 700.000 elettori e di questi, solo 70.000 hanno votato lega mentre il PD ha preso più di 100 mila voti!
Non ho dubbi, le sardine sono e restano solo fuffa. Aggiungo che se non ci si sbriga ad urlarlo, qualsiasi costruzione o ricostruzione di un aspetto critico a sinistra sarà ancora e sempre più difficile.
Mi sembra un giudizio superficiale, non argomentato, smentito dai fatti (in ER hanno fatto la differenza per fermare la marcia del fascistoide Salvini), inutilmente aggressivo. Insomma all’opposto di tutto ciò che personalmente considero un buon modo di ragionare di politica.