Morire di prescrizione

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Probabilmente non sarà il conflitto sulla prescrizione a scrivere il certificato di morte del governo giallo rosa dato che, anche su questo punto (come sulla ratifica del trattato “salva Stati”), si profila un inglorioso rinvio, unico strumento condiviso nell’armamentario di una maggioranza parlamentare assai meno coesa dell’armata Brancaleone immortalata da Mario Monicelli. E tuttavia la gestione della vicenda, e più in generale di quella degli interventi in tema di giustizia, la dice lunga sullo stato confusionale di chi ci governa e sulla mancanza di ogni razionalità nella discussione in atto.

Ma cosa sta succedendo in realtà?

Cominciamo col dire che la prescrizione è un meccanismo che estingue i reati e determina la cessazione dei processi (ove iniziati) se, entro un congruo periodo di tempo dai fatti, non si è arrivati a una sentenza definitiva. Il tempo che fa maturare la prescrizione è variabile: con una qualche approssimazione si può dire che coincide con il massimo della pena astrattamente prevista e che può essere aumentato fino a un quarto, alla metà o ai due terzi a seconda della fase in cui si trova il processo e della gravità del reato. In ogni caso, per i delitti di più modesta entità è previsto che la prescrizione non operi prima che siano trascorsi sei anni dal reato mentre quelli che prevedono l’ergastolo non si prescrivono mai. Molti i fondamenti della prescrizione, da sempre prevista nel sistema penale: l’irragionevolezza del protrarsi del processo potenzialmente all’infinito, con evidente pregiudizio per l’imputato innocente e, non di rado, anche per il colpevole e la stessa parte offesa; la difficoltà – se non l’impossibilità – di un accertamento attendibile a distanza di tempo, quando i testimoni sono scomparsi (o il loro ricordo si è affievolito) e le tracce del reato si sono deteriorate; il venir meno o comunque l’attenuarsi, con il passar degli anni o dei decenni, dell’interesse dello Stato a punire; i cambiamenti intervenuti nella personalità del colpevole, che rendono impropria, se non controproducente, l’applicazione di una pena (che pure nell’immediatezza sarebbe stata congrua ed efficace) e molto altro ancora.

Ovviamente se il sistema giudiziario non funziona in maniera adeguata e i tempi dei processi sono molto lunghi le sentenze di non doversi procedere per prescrizione aumentano e intervengono anche in casi che colpiscono – giustamente – l’opinione pubblica. È quel che accade nel nostro Paese in cui si è assistito a prescrizioni finanche per stupri e vere e propri stragi sul lavoro. Ciò ha provocato ripetuti cambiamenti della disciplina in vigore fino alla legge n. 103/2017 (cosiddetta legge Orlando), in forza della quale, tra l’altro, la prescrizione rimane sospesa per complessivi tre anni dopo la sentenza di primo grado. All’esito di questo percorso, per limitarsi ad alcuni esempi, i tempi massimi di prescrizione sono oggi di 28 anni per una rapina aggravata, di 10 anni e 6 mesi per una resistenza a pubblico ufficiale, di 18 anni per una corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio. Tempi non certo brevi ma ritenuti insufficienti dalla maggioranza Movimento 5Stelle-Lega che, nel gennaio di quest’anno, ha inserito nella legge n. 3, contenente “misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione”, un emendamento in forza del quale la prescrizione smette di operare dopo l’intervento della sentenza di primo grado (sia di condanna che di assoluzione). Le diversità di posizioni tra M5S e Lega in ordine agli interventi sul processo da disporre in parallelo è stata risolta, manco a dirlo, con un rinvio dell’operatività della nuova disciplina al 1 gennaio 2020. La data di scadenza è, ora, alle porte e un nuovo conflitto si è aperto: questa volta tra il M5S (indisponibile a nuovi rinvii) e il Pd (che vuole, quantomeno, accompagnare la nuova disciplina con misure di accelerazione dei processi). Il braccio di ferro si risolverà, probabilmente, con pasticci, promesse, rinvii e quant’altro. Ma i problemi restano e la situazione della giustizia (cioè la tutela dei diritti e dei beni dei cittadini: imputati e parti offese) peggiorerà ulteriormente.

Il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado appaga i furori populisti e demagogici del M5S (che proclama di aver tolto l’impunità a potenti e delinquenti seriali) ma non realizza il risultato dichiarato e introduce nel processo distorsioni assai gravi. Basti considerare che, secondo i dati del Ministero della Giustizia, delle 117.866 sentenze di prescrizione pronunciate nel 2018, 57.707 sono intervenute davanti al gip o al gup, 27.747 davanti al tribunale, 2.550 davanti al giudice di pace e solo 29.216 in corte d’appello e 646 in Cassazione. Dunque la modifica legislativa tocca appena un quarto dei casi di applicazione della prescrizione e un numero assai ridotto dei processi trattati ogni anno (circa il 3%). Ci sono in quei poco meno di 30.000 processi delle tipologie di reati che, per le loro caratteristiche, esigono tempi di trattazione più lunghi e che, conseguentemente, cadono ingiustamente sotto la scure della prescrizione? Può darsi. Ma, se è così, servono degli aggiustamenti ad hoc che risolvano il problema specifico ed evitino due effetti distorsivi assai gravi di immediata evidenza: l’ulteriore dilatazione dei tempi processuali nelle fasi di appello e di Cassazione e l’assoggettamento indefinito al processo anche, rectius soprattutto, degli imputati di reati bagatellari (i cui processi dovranno cedere il passo a quelli per i fatti più gravi), magari innocenti e assolti in primo grado. L’aumento dei tempi processuali in presenza di un maggior numero di dibattimenti è automatico e inevitabile e non vale dire – come pure taluno fa – che senza l’aspettativa della prescrizione diminuirebbe il numero delle impugnazioni. Chiunque frequenti le aule di giustizia (o anche solo rifugga dall’uso di slogan) sa che si continuerebbe ad impugnare allo stesso modo: per chiedere l’assoluzione, per usufruire di un’attenuante, per ottenere una riduzione della pena o per guadagnar tempo (sperando nella più facile concessione di una misura alternativa a grande distanza dal fatto o anche solo cercando di differire – come tutti facciamo – scadenze dolorose e sgradite). Quanto agli effetti di una illimitata sottoposizione a processo, poi, basti pensare, oltre agli aspetti psicologici (non certo irrilevanti), alle situazione di chi per ricevere un incarico o per ottenere un lavoro deve produrre il certificato dei carichi pendenti…

Il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, dunque, non serve (o serve a poco) ai fini dichiarati e produce danni consistenti. Abbandonarlo sarebbe razionale e benefico. Ma non risolverebbe il problema (e a volte lo scandalo) di un numero abnorme di prescrizioni, soprattutto nella fase precedente il giudizio di primo grado.

Che fare, allora? I troppi medici improvvisati che si accalcano al capezzale della giustizia malata (politici ma anche magistrati e avvocati) si sbizzarriscono nelle ricette più improprie e foriere di danni ulteriori, dalla proposta di abolizione indiscriminata dell’appello a quella della eliminazione dell’obbligatorietà dell’azione penale. In epoca di diffuso favore per il sorteggio c’è da aspettarsi che, prima o poi, qualcuno proponga di demandare il giudizio sulla colpevolezza o l’innocenza dell’imputato, anziché al processo, a un’estrazione a sorte, riducendo il giudice a garante della correttezza formale della relativa procedura. Indubbiamente si accorcerebbero i tempi e si cancellerebbe il meccanismo stesso della prescrizione. Ma non sarebbe l’opzione più appagante…

La strada – l’unica strada praticabile – è quella di procedere per progressivi aggiustamenti su diversi piani secondo le indicazioni tracciate finanche dalle commissioni ministeriali che si sono succedute negli anni: riduzione del carico penale soprattutto con modifiche sostanziali a quelle leggi che riempiono le aule di giustizia senza risolvere i problemi di cui si occupano (mi riferisco, ovviamente, alle leggi sugli stupefacenti e a quelle sull’immigrazione); trasformazione, prevedendo ulteriori riduzioni di pena per l’imputato, degli attuali riti alternativi in riti ordinari, nei quali l’utilizzabilità degli elementi raccolti nelle indagini venga compensata da un’ampia possibilità di integrazione probatoria; abolizione dell’appello per ragioni di merito in caso di intervenuta assoluzione in primo grado (ché non vi può essere “colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio” se un giudice ha avuto incertezze tali da concludere per l’assoluzione); semplificazione delle motivazioni delle sentenze e dei provvedimenti in genere e via elencando.

Ma non si farà nulla di tutto questo. Alle pigrizie e alle sottovalutazioni di sempre si è aggiunto da ultimo un fenomeno devastante per il sistema giustizia: il cosiddetto populismo penale (cfr. L. Ferrajoli), caratterizzato da un diffuso scontento verso le procedure della democrazia, considerate troppo lente, macchinose e distanti dalla volontà del popolo con l’enfatizzazione del ruolo di capi politici, diretti interpreti della volontà dei cittadini (cfr. N. Rossi), che ha alimentato l’insofferenza nei confronti delle regole e delle garanzie e la diffidenza verso i magistrati e i giuristi in genere (ritenuti non legittimati dalla volontà del popolo) sino a far vacillare i princìpi fondamentali del garantismo, del giusto processo e della stessa razionalità processuale. Così anche la revisione della prescrizione non sarà utilizzata per razionalizzare il processo ma sarà brandita come arma contro nemici di vario genere da indicare alla pubblica opinione come responsabili della crisi in cui versiamo e, come tali, da punire in maniera esemplare. Come vogliono, per autolegittimarsi, tutti i populismi.

Gli autori

Livio Pepino

Livio Pepino, già magistrato e presidente di Magistratura democratica, dirige attualmente le Edizioni Gruppo Abele. Da tempo studia e cerca di sperimentare, pratiche di democrazia dal basso e in difesa dell’ambiente e della società dai guasti delle grandi opere. Ha scritto, tra l’altro, "Forti con i deboli" (Rizzoli, 2012), "Non solo un treno. La democrazia alla prova della Val Susa" (con Marco Revelli, Edizioni Gruppo Abele, 2012), "Prove di paura. Barbari, marginali, ribelli" (Edizioni Gruppo Abele, 2015) e "Il potere e la ribelle. Creonte o Antigone? Un dialogo" (con Nello Rossi, Edizioni Gruppo Abele, 2019).

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