La crisi, finalmente aperta anche in modo formale, offre fin dall’inizio alcuni spunti di riflessione in vista di una (incerta e difficile) uscita in avanti.
Primo. Sono bastati dieci giorni a ridimensionare Salvini, almeno sotto il profilo politico (ché sotto quello del consenso si vedrà). Il ruolo di ministro dell’interno, centrale nel suo disegno politico, e quello di presidente del Consiglio ombra (capace di sostituirsi al premier nel dettare i tempi dell’attività di governo e finanche nel dialogare con le parti sociali) gli avevano conferito l’immagine di politico (unico nel panorama attuale) efficiente, determinato, capace di decisioni rapide e di sintonia con il sentire di ampia parte del Paese, in una parola vincente. Di qui una marcia trionfale punteggiata dal raggiungimento degli obiettivi mediaticamente più visibili, anche se non necessariamente più rilevanti in termini politici (dalla legge sulla legittima difesa ai decreti sicurezza, dal varo di tutte le grandi opere in cantiere al parziale smantellamento della legge Fornero) e non scalfita neppure dalle (imbarazzanti) disavventure giudiziarie. E di qui il disegno di innescare una “crisi lampo” destinata a produrre elezioni immediate. L’impasse seguito alla imprevista resistenza del premier Conte (e, con ogni verosimiglianza, del presidente della Repubblica) ha mostrato i limiti del personaggio e della sua politica. Privato nei fatti del suo doppio ruolo (fino allo schiaffo della mancata controfirma dei ministri pentastellati al suo ennesimo provvedimento di chiusura dei porti) Salvini ha inanellato gaffes e insuccessi in serie dimostrando una imprevista fragilità e una marcata incapacità di gestire le situazioni difficili: ha aperto la crisi restando al governo in una posizione perdente, ha presentato una mozione di sfiducia nei confronti del Governo poi inopinatamente ritirata, si è proposto come leader di una destra unita non riuscendo neppure a incassare l’appoggio della morente Forza Italia, ha fatto un’imbarazzante retromarcia prospettando la ripresa della collaborazione con il M5S da cui ha ricevuto solo risposte irridenti. Il suo disagio e il suo nervosismo sono emersi in modo plastico nella goffa incertezza sul luogo (banco del Governo o scranno parlamentare) da cui svolgere l’intervento in risposta alle comunicazione del presidente Conte. Ciò ha scalfito la sua immagine di vincente e ha restituito la realtà di un leader debole e maldestro. Resta tutta intera – sia chiaro – la pericolosità dei suoi deliri autoritari e resta, almeno nei tempi brevi, un indubbio consenso popolare intorno alla sua persona. Ma la sua cavalcata trionfale si è interrotta ed è emerso evidente che può essere sconfitto.
Secondo. I tempi della crisi si sono dilatati ed è auspicabile che si prolunghino quanto necessario per consentire gli approfondimenti necessari. Così funzionano le democrazie parlamentari e i sistemi proporzionali (pur imperfetti come il nostro). La formazione del Governo gialloverde ora defunto ha richiesto – anche se oggi i suoi artefici fingono di dimenticarlo – oltre due mesi di trattative (si è votato il 4 marzo 2018 e il Governo si è insediato solo il 1 giugno successivo). Ed è così in tutta Europa: basti ricordare i casi della Germania, dove il varo dell’attuale Governo Merkel ha richiesto un confronto di oltre cinque mesi (dal voto del 24 settembre 2017 al giuramento del 14 marzo 2018), e della Spagna, dove il tentativo di formare un nuovo esecutivo (probabilmente destinato a restare senza esito) si protrae dal 28 aprile, e dunque da quasi quattro mesi. Non è un caso e non è un fatto negativo. L’idea che si debba sapere la sera del voto chi governerà per l’intera legislatura – ricordate la retorica renziana? – ha una (discutibile ma indubbia) validità nei sistemi con lunga e consolidata tradizione bipartitica (come gli Stati Uniti) ma è priva di ogni razionalità in sistemi politicamente frammentati, nei quali tale risultato si potrebbe raggiungere solo regalando al partito più forte una maggioranza che non ha (così alterando l’ABC della rappresentanza e aprendo la strada ad avventure potenzialmente autoritarie). Finita – sperabilmente – l’ubriacatura maggioritaria, resta la paziente ricerca di convergenze e alleanze, pur consapevole delle posizioni diverse o addirittura originariamente conflittuali delle forze coinvolte (come accade in tutti i sistemi proporzionali). Il punto delicato non sta né nella trattativa né nei suoi tempi ma negli esiti, cioè nel raggiungimento – o meno – di un progetto all’altezza della situazione. Avviare un confronto e una trattativa per realizzarlo (e, a maggior ragione, riuscirci) non rafforzerà la Lega, che riceverà invece nuova linfa dalla formazione di un esecutivo debole e inconcludente.
Terzo. Ma è possibile, oggi nel nostro Paese, uno sbocco di governo credibile alternativo a quello (pessimo) degli ultimi 15 mesi e sostenuto da una diversa maggioranza (cioè, inevitabilmente, per ragioni numeriche, da M5S, Pd e Leu)? Non avendo la sfera di cristallo non lo so. Ma so che per coltivare seriamente questa prospettiva ci sono alcune condizioni irrinunciabili. La prima è una visibile e reale rottura con il passato: la si può presentare, per ragioni tattiche, in diversi modi ma non se ne può eludere la sostanza. A partire dalla composizione del nuovo esecutivo. Un Governo diverso non può che avere facce diverse. Anzitutto quella del suo presidente. Dopo l’intervento di Conte al Senato c’è chi, incredibilmente, lo ha riproposto come premier. È l’ennesimo segnale di una politica malata. Conte ha liquidato senza sconti e in modo efficace Salvini, è vero. Ma lo ha fatto, evidentemente colpito sul piano personale, dopo averlo blandito per oltre un anno e, soprattutto, dopo avere guidato il Governo che ha impresso al Paese la più rilevante torsione razzista e autoritaria del dopoguerra e ha fatto ulteriori scelte sciagurate come quelle in tema di uso delle armi e di grandi opere. Nessun Governo alternativo può annoverarlo tra i suoi protagonisti. E la cosa vale – superfluo dirlo – per i ministri uscenti del M5S (almeno per quelli di primo piano).
Quarto. Oltre alla questione del chi, c’è – ancora più importante – quella del cosa. La contrapposizione tra Governo di legislatura o a termine è, a ben guardare, oziosa e fuorviante. Così come non si parte con il piede giusto prospettando con tono grave – come subito si è cominciato a fare – obiettivi generali e generici. Quel che occorre è un esecutivo che metta in cantiere un numero limitato di cose chiare da realizzare nel giro di alcuni mesi e che le realizzi. Non può che essere questa la sua cifra e il metro della sua durata. La definizione di queste cose è l’oggetto delle trattative dei prossimi giorni. A cui la sinistra (la piccola pattuglia di Leu nelle istituzioni e il resto – noi tra gli altri – nel dibattito politico) deve dare un contributo propositivo forte. Anche in modo provocatorio. Rilanciando una legge elettorale rigorosamente proporzionale (e non un semplice impegno a garantire la centralità del Parlamento, tanto condivisibile quanto indeterminata); chiedendo la cancellazione della legge sulla legittima difesa e dei decreti sicurezza; lanciando un’alleanza tra i Paesi del Sud dell’Europa per una politica europea che abbandoni il mito dell’austerità e definisca un sistema accogliente e condiviso in tema di migrazioni; sollecitando il potenziamento del reddito di cittadinanza (liberato dalle attuali valenze paternalistiche e di controllo sociale) e l’approvazione di una legge sul salario minimo garantito con contestuale abbandono della prospettiva della flat tax; definendo un progetto concreto di messa in sicurezza del territorio e riproponendo l’abbandono del TAV Torino-Lione (rimasto in sospeso per la mancata adozione degli atti formali necessari per dare attuazione al “via libera” del premier); proponendo l’abbattimento delle spese militari e via seguitando. Libro dei sogni? Provocazione? In parte sì, ma c’è tempo per il realismo. Ora occorre rimescolare le carte e rendere evidente che fare un nuovo governo non può essere un’operazione a costo zero per tutti (ché, altrimenti, è davvero meglio il voto).
Un magnifico Livio Pepino, che, con questo notevolissimo contributo, ci aiuta, insieme a Marco Revelli, a “mettere a fuoco”: a che punto sia, esattamente, e ad ora, la notte della repubblica. E’ proprio così… che stanno le cose: esattamente come lui le ha “ordinate” nel suo articolo. Viceversa, a tutt’oggi, “le chiacchiere stanno a zero”! Solo adesso, dopo avere letto l’acuta analisi di Pepino, mi si è chiarito l’ostacolo maggiore che lo schieramento democratico ha davanti nei prossimi -difficilissimi e pochissimi- giorni, fino alla scadenza dell'”ultimatum” di ieri del Presidente della Repubblica. E cioè: che la sola speranza che abbiamo di vedere “rintuzzate” le pretese velleitarie della destra, e segnatamente, (ancorchè non esclusivamente) di quella salviniana, riposa, interamente, sulla capacità dei protagonisti di questo confronto serratissimo, di: TENERE IL PUNTO!
Il punto, ovviamente, è quello della formazione e realizzazione di un progetto di governo che sia – senza nè se nè ma…- quello, cioè, di cui parla Livio Pepino. Il quale ci assicura, acutamente e giustamente, che un tale governo “… non rafforzerà la Lega, che riceverà invece nuova linfa dalla formazione di un esecutivo debole e inconcludente.”
Il passaggio è “fulminante”! e rimanda con immediatezza alla proposta di Salvini su: “DI MAIO FOR PRESIDENT”! All’inizio, ho creduto che Matteo Salvini fosse andato – completamente – fuori di testa: “Lo fa passare da pirla, Di Maio… in questo modo!” mi sono detta… “Salvini s’è ammattito!”
Ma adesso, dopo aver letto Pepino… mi sto interrogando… seriamente… su questa apparente follia…