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21/07/2019 di: Marco Revelli
Un governo morto che non muore. Un’opposizione che si vorrebbe viva e rigenerata, che non riesce a opporsi a nulla. Un popolo che non è popolo ma coacervo di individui rancorosi e competitivi, che tuttavia ha prodotto uno dei peggiori populismi in circolazione oggi. E al fondo, paradosso baricentrico che spiega tutti gli altri, un Paese fallito che non fallisce. È probabilmente il non detto di questa verità prima, mai dichiarata e però terribilmente incombente, ciò che rende così irreale la crisi italiana, come fluttuante nell’aria in un eterno tempo sospeso. Il fattore che le fa sfidare, ogni giorno, le leggi della fisica politica.
Prendiamo il caso di Matteo Salvini, della sua Nuova lega national size, e dello scandalo russo: una qualche emorragia dovrebbe pur provocarla in un organismo normale, invece no, i sondaggi la danno in crescita. Come il rospo con la sigaretta il suo corpo informe continua a dilatarsi, fino si sa a scoppiare alla fine, ma solo alla fine. Per intanto il consenso cresce alimentato dalla somministrazione a un elettorato in debito di pane di dosi massicce di circenses cruenti, esibizione di ferocia verso gli ultimi (si pensi a Primavalle) e linguaggio da postribolo verso chi pratica il bene (si pensi agli oltraggi contro Carola Rackete).
Oppure prendiamo, al polo opposto, Nicola Zingaretti. L’ho visto l’altra sera a In Onda, e non credevo ai miei occhi mentre con un sorriso smagliante stampato in faccia invocava per subito, senza se e senza ma, le elezioni anticipate, la prova del voto per vincere, e instaurare finalmente il bipartitismo in questo Paese dal destino luminoso. Mi sono chiesto quale sostanza avesse assunto, per immaginarsi uno scenario del genere quando tutti sanno che se davvero si votasse ora stravincerebbe l’asse Meloni-Salvini, con una maggioranza che permetterebbe loro di eleggere il futuro Presidente della Repubblica oltre a cambiare la Costituzione.
Poi però mi sono reso conto che la preoccupazione del neosegretario del PD quella sera non era di rassicurare la maggioranza del Paese, ma di terrorizzare la sua minoranza interna: quei renziani che occupano i gruppi parlamentari e che temono il voto come la peste. Così come la preoccupazione maggiore di Di Maio non è quella di realizzare i principii del suo “movimento” ma di controllare e possibilmente spaventare il suo partner di governo Salvini. E la preoccupazione di Salvini è di lasciare il cerino in mano a Di Maio. Persino per Ferrero e Fratoianni funziona la stessa logica, ognuno impegnato a presidiare la propria quota dello striminzito 1,5% raccattato nelle urne…
La verità è che in questa torrida estate del 2019 ogni capo-partito o capo-corrente guarda la punta delle proprie scarpe per misurare la distanza necessaria per sgambettare il vicino. Nessuno ha il coraggio di alzare lo sguardo su un Paese che affonda, con un immenso ceto medio (non ci sono più in Italia veri Grandi Borghesi così come sono scomparsi dalla vista gli Operai) in decomposizione, spaventato dal declino e reso isterico dalla paura del futuro e con un sottoproletariato straripante man mano che la “grande trasformazione” fa il suo giro. Una società senza più classi e con mille ceti, in gran parte improduttivi, in larga misura ignoranti, gelosi dei residui privilegi e rancorosi per quelli perduti.
Vengono in mente le pagine che un grande testimone del suo tempo, Ernst Bloch, scrisse nella prima metà degli anni ’30, a proposito della Germania: «L’epoca è in putrefazione, e al tempo stesso ha le doglie», diceva per rappresentare il carattere appunto «sospeso», nel vuoto tra il non più e il non ancora, della vita politica e sociale di allora, che era non dimentichiamolo quella dell’avvento di Hitler al potere. E poi, nel capitolo intitolato Polvere, parlava di «quelli che non ce la fanno»: dell’«uomo pieno di amarezza [che] resta indietro, sanguinante e oscuro». Vittima e insieme carnefice, di sé e degli altri: «Dànno dei colpi attorno a sé, soprattutto verso il basso, dove rischiano di sprofondare». Gli sembravano «vitelli che scelgono da sé il proprio macellaio, se l’odore di molti di essi non fosse appunto quello dei macellai…».
Parlava anche del linguaggio, Ernst Bloch, in quel libro attualissimo (non per nulla si intitola Eredità del nostro tempo): del linguaggio «illusorio» dei nazisti, falso e tuttavia efficacissimo nel creare l’«illusione» che veniva a sostituire l’«utopia» caduta. E del linguaggio sincero e tuttavia freddissimo dei loro avversari, incapaci di ridare all’Utopia forza trasformativa, con le loro formule statistiche, numeri e tabelle, che come le analisi chimiche sulle etichette delle bottiglie di acqua minerale non sapevano restituire più «il sapore dell’acqua bevuta» («den Geschmack des getrunkenen Wassers»). I nazisti vinsero, allora, la battaglia della propaganda, perché seppero creare un’immensa illusione – una forma di “inebriamento” collettivo –, usando tuttavia il linguaggio caldo della vita: parlando di persone e soprattutto contro persone, anziché di cose; e collocandole in uno scenario wagneriano di cartapesta, tanto inautentico quanto ipnotico.
Oggi la partita che si gioca non è diversa. Solo un bagno di realtà potrebbe disinnescare l’illusionismo ipnotico della demagogia populista. Solo chi fosse capace di usare un linguaggio di verità – ne avesse l’autorevolezza, la conoscenza, la moralità e l’innocenza – guardando in faccia e rivelando la dimensione effettiva del disastro che si ha davanti (e “di sotto”), senza filtri ipnotici o infingimenti retorici, potrebbe neutralizzare la rozza potenza del Capitano di breve corso e dei suoi seguaci. Così come, paradossalmente, solo un ritorno dell’Utopia – una scintilla di speranza nella possibilità che il dispotismo del presente possa essere trasceso, in modo da riaprire il tempo – potrebbe restituire a quegli uomini «sanguinanti e oscuri» che oggi si affidano ai profeti del nulla un tratto di umanità. Perché è nel tempo chiuso in uno stato di cose presente considerato non trascendibile che si generano i mostri.
Pubblicato in versione leggermente più breve col titolo La crisi irreale nel Paese che affonda in “Il Manifesto” del 21 luglio 2019.