Tanto tuonò che piovve. Ma forse è solo un temporale.
Lo scandalo conseguente all’emergere delle poco commendevoli frequentazioni di Luca Palamara, pubblico ministero romano ed esponente di primo piano dell’associativismo giudiziario, ha aperto una crisi gravissima nel Consiglio superiore della magistratura, messo in condizioni prossime alla paralisi dalle dimissioni di un componente e dall’autosospensione di altri quattro e con un drammatico dibattito in corso sulla sua stessa sopravvivenza (solo momentaneamente sopito dal documento approvato ieri l’altro dal plenum). Non è il primo passaggio delicato della storia dell’autogoverno giudiziario per fatti connessi con la “questione morale” da quando, nel 1981, la polizia giudiziaria varcò i cancelli di palazzo dei Marescialli per perquisire lo studio del vicepresidente Zilletti (poi costretto a dimettersi perché lambito dalle indagini relative al banchiere piduista Roberto Calvi) e sino a che, nel 2011, il consigliere laico di fede leghista Matteo Brigandì venne sorpreso con le mani nel sacco in un’operazione di delegittimazione del pubblico ministero milanese Ilda Boccassini attraverso documenti consiliari secretati indebitamente sottratti. Ma questa volta la situazione sembra assimilabile, per drammaticità, solo a quella del 1983, quando fu necessario un duro e irrituale intervento del presidente Pertini per salvare il Consiglio dallo scioglimento sollecitato dal procuratore di Roma Gallucci nel corso delle indagini per il cosiddetto scandalo dei cappuccini.
Tutto nasce dalla contestazione a Palamara, da parte della Procura della Repubblica di Perugia, del reato di corruzione per avere ricevuto denaro e favori da un amico imprenditore intento, insieme a un paio di faccendieri, a pilotare trasferimenti di magistrati. Il fatto è in corso di accertamento ma alcuni dati sono pacifici: la frequentazione pericolosa, da parte di Palamara, di personaggi spregiudicati, alcuni dei quali già arrestati o inquisiti e, soprattutto, le grandi manovre per la nomina del nuovo procuratore della Repubblica di Roma, messe a punto in incontri notturni tra lo stesso Palamara (leader della corrente di Unità per la Costituzione), quattro magistrati componenti del Csm (Corrado Cartoni, Antonio Lepre, Gianluigi Morlini e Paolo Criscuoli), il parlamentare Pd Cosimo Ferri (magistrato in aspettativa, già segretario di Magistratura indipendente e tuttora influente manovratore del gruppo) e l’ex ministro renziano Luca Lotti (tuttora imputato davanti alla Procura di Roma). A completare il quadro l’attivazione di un altro consigliere (Luigi Spina) per informare Palamara, in tempo reale e in violazione dei doveri di ufficio, della sua avvenuta iscrizione nel registro degli indagati.
La vicenda non è propriamente edificante e le reazioni non potevano mancare e non sono mancate. Nel Csm è stato un rincorrersi di (inevitabili) dimissioni e autosospensioni, suggerite dal colle più alto, in attesa di un drammatico plenum in cui le critiche al correntismo si sono intrecciate con i buoni propositi (secondo un copione nuovo, in verità, solo nei toni). Tra i magistrati ci sono state sdegnate assemblee territoriali e interventi di fuoco anche da parte di chi ‒ tuttora in servizio o ormai fuori dall’ordine giudiziario ‒ del sistema di potere correntizio e dei suoi collegamenti con il sottobosco politico è stato protagonista o si è ampiamente avvalso nel suo cursus honorum; ciò in un continuo crescendo sino alla richiesta di dimissioni di tutti i consiglieri coinvolti nella vicenda avanzata dal presidente dell’Associazione magistrati all’esito di un riunione ad hoc della giunta esecutiva centrale. Sui versanti politico, mediatico e dell’avvocatura, poi, è stato un susseguirsi di j’accuse contro le “correnti” (individuate come vero cancro della giustizia) e di invocazioni di riforme del Csm (anche con la scelta per sorteggio dei suoi componenti magistrati), di separazione delle carriere di giudici e ministeri e finanche di revisione del principio di obbligatorietà dell’azione penale (sic!).
Nonostante tutto l’impressione è che, ancora una volta, sfugga, per superficialità o per scelta, la reale entità dei problemi e dei rimedi necessari e si oscilli tra il gattopardismo (in cui si prospettano riforme di facciata perché tutto resti com’è) e la volontà di regolare i conti su questioni che nulla c’entrano con la vicenda in corso (come, appunto, la separazione delle carriere o l’obbligatorietà dell’azione penale).
Concentrare l’attenzione e le critiche sul Csm è, infatti, fuorviante. Il problema non è (o, meglio, non è soprattutto) l’organo di autogoverno, ma la magistratura. Lo scandalo era, per molti versi, uno scandalo annunciato. Il ruolo di Cosimo Ferri come cerniera tra la magistratura e il sottobosco (bipartisan) della politica è noto da lustri e Magistratura indipendente, che a lui continua a fare capo, ha incrementato proprio per questo i suoi consensi. E da sempre l’adesione a Unità per la costituzione è una sorta di assicurazione per giudici e pubblici ministeri alla ricerca di un incarico direttivo. Il Consiglio in funzione non è un corpo estraneo al corpo giudiziario e autoreferenziale ma la realizzazione di ciò che vuole una parte consistente della magistratura (anche se – spero – non della sua maggioranza). A ciò le correnti interne (alcune di esse in particolare) hanno aggiunto del loro, ma il problema non nasce qui.
Il clientelismo e la ricerca di protezioni politiche, anche tra i magistrati, ha radici antiche se è vero che già un secolo fa la legge n. 438 del 1908 vietava a giudici e pubblici ministeri di ricorrere alle raccomandazioni di politici o avvocati per ottenere facilitazioni in carriera e che il divieto, pur ribadito, durante il fascismo, da una circolare del guardasigilli Rocco del febbraio del 1930, era sistematicamente violato, al punto che uno dei successori di Rocco, Dino Grandi, si sentì in dovere di richiamarlo con il telegramma-circolare n. 2473 del 7 maggio 1940 in cui si sottolineava la necessità (quantomeno) di evitare il flusso e la permanenza a Roma dei magistrati che assediavano i componenti del Consiglio superiore per tutto il tempo in cui gli stessi erano impegnati negli scrutini o nelle promozioni. Né la situazione migliorò in epoca repubblicana, prima della nascita delle correnti, almeno a giudicare dal grottesco ritratto con cui Dante Troisi descrive (in Diario di un giudice del 1955) il collega in lacrime perché, non conoscendo né vescovi né cardinali, non può ambire alla “meritata promozione”. Se poi posso citare un’esperienza personale, aggiungo che tutto ciò ho toccato con mano durante la mia esperienza consiliare, dal 2006 al 2010, in cui molte sono state le richieste di “appoggi” e altrettante le amicizie cancellate per non averli accordati. Allo stesso modo la disinvoltura e (a volte) la spregiudicatezza nei rapporti di alcuni magistrati con il sottobosco politico e affaristico non sono una novità, ancorché sottovalutata dalla corporazione (e nei rapporti dei capi degli uffici).
A questa situazione occorre cercare di porre rimedio se si vuole davvero incidere sulla sua escrescenza nell’autogoverno giudiziario e sulle relative avvilenti manifestazioni (a ben guardare tristemente condivise con il malcostume che caratterizza le nomine dei prefetti o dei questori, dei presidenti delle aziende sanitarie o dei direttori dei telegiornali, dei rettori delle Università o dei vertici di polizia e carabinieri).
Che fare, dunque? Non ci sono scorciatoie e nessuno ha la bacchetta magica. Ma qualche indicazione è possibile. Non servono esercizi di ingegneria istituzionale o, peggio, soluzioni bizzarre come il sorteggio dei componenti del Consiglio (che, a tacer d’altro, non toccano la struttura della corporazione). Ciò che occorre è, anzitutto, una forte ripresa di iniziativa delle componenti progressiste della magistratura per denunciarne e combatterne cadute e compromissioni ché, da sempre, il malcostume si contrasta contrapponendovi una cultura e un metodo di confronto alto sulle idee e sui progetti. Dopo un lungo appannamento vedo, al riguardo, incoraggianti segnali di ripresa. Soprattutto in Magistratura democratica, tornata finalmente a occuparsi di analisi critiche della magistratura e della giurisdizione più che di nomine e di incarichi, come si vede dalle pagine della sua rivista online “Questione giustizia”. E poi occorre acquisire la consapevolezza che non si correggono i vizi del Consiglio ripristinando modelli burocratici peggiori degli attuali. Gli antidoti alle degenerazioni sono una vera temporaneità degli uffici direttivi (che riporti i dirigenti al ruolo di primi inter pares e ne elimini o attenui il carattere di centri di potere che – come nel caso della Procura di Roma – valgono nel Cencelli della politica come due o tre ministeri) e la fuoruscita dei magistrati dai luoghi, per essi impropri, del sottogoverno, a cominciare dai ministeri (dai quali è oggi possibile transitare direttamente alla direzione degli uffici più delicati del Paese). L’antidoto, in sintesi, è il recupero del senso profondo della parità delle funzioni giudiziarie e dell’indipendenza dei magistrati da ogni condizionamento esterno.
ottimo
ma perché non creare una sorta di comitato effettivamente indipendente di personalità (non pagate per questo) ma che possano essere un costante controllo dell’etica professionale … e come sappiamo questo vali in tutti i settori della pubblica amministrazione, compresa l’università …
e sappiamo che i poliziotti si iscrivono ai sindacati innanzitutto per avere favori e protezioni …
la magistratura naviga in un coacervo di corruttele, per avere un ricongiungimento familiare o un trasferimento si venderebbero l’anima al diavolo. Spesse volte, si tratta semplicemente di non avere interesse ad opporsi a indebite pressioni, in un lassez faire che oltrepassa la vergogna. Quello che succede al CSM è distante dal cittadino che ogni giorno ha a che fare con questa vergogna. Dovrebbero fare loro il lavaggio del cervello al momento del concorso e tatuare nel loro cervello che si tratta della vita delle persone.