Un giorno dopo le elezioni europee. Il tempo di riprendersi e di tirare il fiato. Ma il giudizio resta invariato: non poteva andare peggio. Per molti motivi i più importanti dei quali provo a indicare in ordine decrescente di importanza.
Primo. L’onda nera ha sfondato. Il successo della Lega di Salvini è stato straripante. 9.175.208 voti (pari al 34,3%) sono una cifra enorme. Si tratta di un votante ogni 3. E impressiona la crescita: + 7.487.000 (+ 28,1%) rispetto alle europee del 2014 e + 3.484.000 (+ 17%) rispetto alle elezioni della Camera dell’anno scorso. Il dato è ancor più significativo considerando che Fratelli d’Italia ha avuto anch’essa un exploit notevole passando da 1.006.513 voti (3,7%) del 2014 e da 1.426.364 voti (4,35%) del 2018 a 1.726.189 voti (6,4%) attuali. La destra, nel suo complesso (considerando anche Forza Italia e pur escludendo Casa Pound e Forza Nuova) raggiunge i 13.253.070 voti, pochi decimali meno del 50%, partendo dai 7.309.074 voti (26,7%) del 2014 e dai 12.147.611 (37%) del 2018. Non c’è storia. Ed è inutile dire, come fa qualcuno in chiave consolatoria che da tempo – in Italia e non solo – il consenso è volatile: lo si acquista e lo si perde in tempi rapidissimi come dimostrano, nel nostro paese, le vicende di Forza Italia, di Renzi e dello stesso Movimento 5Stelle. È vero, ma in questo caso il successo della destra (e di Salvini in particolare) non sta solo nella politica ma si è radicato nella società. Come è accaduto nell’America di Trump e non solo. Lo dimostra il fatto che la Lega ha vinto persino a Lampedusa e a Riace e con toni da crociata d’altri tempi (dal congresso della famiglia di Verona fino all’invocazione della protezione della Madonna e all’esibizione del rosario nelle ultime battute della campagna elettorale). Può darsi che il consenso alla persona si attenui in tempi medi ma il cambiamento della società nel profondo, a livello antropologico, è un fatto che – è facile prevederlo – durerà nel tempo, indipendentemente da chi lo interpreterà. Ciò anticipa tempi bui come non mai nella storia recente del presente. Indipendentemente dalla prosecuzione del Governo in carica o dalla corsa a nuove elezioni.
Secondo. Ha vinto, ancora una volta, il non voto: l’affluenza alle urne è stata del 56,1% degli aventi diritto, con un netto calo non solo rispetto alle politiche dello scorso anno (72,93%) ma anche rispetto alle europee del 2014 (58,7%). Nello spazio di un anno hanno abbandonato il voto, scegliendo di stare a casa, oltre 5 milioni di persone. E non basta l’affermazione che per l’Europa si vota di meno: è vero, ma in questo caso era chiaro a tutti che – come sollecitato da Salvini – il voto era un referendum pro o contro la Lega e le sue politiche. Si aggiunga che, come è chiaro da tempo nel nostro Paese, l’astensione non è, nella stragrande maggioranza dei casi, una scelta politica attiva ma il portato di una sfiducia e di una disaffezione in buona misura incolmabili. Il risultato è il rafforzamento dell’establishment che, come noto, giova di elettori numericamente ridotti e controllabili assai più che di molti elettori incontrollabili.
Terzo. La sconfitta del Movimento 5Stelle va ben oltre i numeri, pur da soli prossimi alla catastrofe. Quelli che un tempo si chiamavano i grillini hanno intercettato 4.569.089 voti, attestandosi sul 17,1%, scendendo abbondantemente sotto la soglia di guardia del 20% e precipitando dal primo al terzo posto nella graduatoria del consenso (superati anche dal PD). Hanno perso 1.238.273 voti dalle europee del 2014 (precedenti al “grande balzo in avanti”) e sono stati abbandonati da 6.158.478 di elettori che li avevano premiati nelle politiche di appena un anno fa, passando dal 33,68 al 17,1%. È un vero e proprio crollo, esattamente speculare alla vittoria di Salvini. E si accompagna alla caduta verticale dei consensi a Roma e Torino (le due grandi città amministrate da proprie giunte) e alla perdita, nel parallelo voto amministrativo, di Livorno. La sconfitta politica è totale. Il Movimento 5S potrà vivacchiare e mantenere ancora qualche consenso al Sud. Potrà restare al governo in un ruolo del tutto subalterno alla Lega o tentare un’impossibile rivincita in elezioni politiche anticipate. Ma sono solo due variabili di un declino già scritto. Un ciclo si è chiuso e, con esso, è tramontata la scommessa, coltivata per anni, di un sovvertimento delle categorie politiche classiche prodotto da una forza di matrice indefinita, alternativa al sistema dato, autosufficiente e capace di egemonia nella società (per meriti propri e per demeriti altrui). Questa prospettiva è definitivamente scomparsa. Le mancano i numeri ma ancor più (e in modo definitivo) le condizioni. L’anomalia italiana è rientrata nei ranghi. L’immagine di Di Maio, stordito e incredulo, che offre la propria testa allo stato maggiore del gruppo ricorda in modo patetico quella di Renzi all’indomani del referendum del 4 dicembre 2016.
Quarto. Il risultato del Partito democratico, nonostante le (poco convinte) dichiarazioni di soddisfazione dei suoi dirigenti, è estremamente deludente. Anzitutto sotto il profilo numerico: il dato percentuale (22,7% rispetto al 18,72% delle politiche del 2018), conseguente alla forte diminuzione dei votanti, non basta a occultare la perdita, in assoluto, di oltre 50.000 voti nel giro di un anno. Per non parlare degli oltre 5 milioni di voti persi per strada dalle precedenti europee. Ciò in un contesto nel quale il Pd poteva contare sul “rientro a casa” della gran parte di Liberi e Uguali (che, insieme a Sinistra italiana, aveva avuto, alle politiche del 2018, 1.113.969 di voti) e giovarsi dell’effetto del “voto utile” di chi pensava di contenere in questo modo l’avanzata della destra. E il trend è confermato dalla sconfitta alle elezioni regionali del Piemonte dove la coalizione a sostegno del governatore uscente Chiamparino (comprensiva anche di Sinistra italiana, dei Verdi e di molti altri “cespugli”) è stata distanziata di 14 punti dalla destra e il Pd è rimasto ancorato alla percentuale delle europee. In questo contesto è davvero fuorviante cullarsi sulla “tenuta” nei grandi centri urbani e sulla conferma al primo turno in alcune città (come Firenze e Bari). Ancora più deludenti sono le valutazioni politiche: il Pd è fuori dal governo regionale in tutto il Nord Italia; perde il primo posto, nel voto europeo, persino in alcune delle regioni centrali; è le mille miglia lontano dal proporsi come alternativa alla destra. Di più, è un partito isolato, incapace di egemonia e privo di alleanze. Trasformatosi ormai un partito di centro, simile, anche nelle dichiarazioni dei suoi esponenti, alla République En Marche di Emmanuel Macron, e persa l’occasione di un dialogo con il M5S nella fasce ascendente, ha lasciato per strada, a sinistra, ogni collegamento con la società e, in generale, ogni possibilità di aggregazione (anche per l’estinzione in corso del suo naturale alleato/competitore di Forza Italia).
Quinto. La sinistra, a livello di rappresentanza politica, è semplicemente scomparsa. E lo cito come ultimo elemento caratterizzante della scena politica solo perché è cosa nota da tempo, almeno dall’aprile 2008, quando la sconfitta della Sinistra Arcobaleno travolse definitivamente il tentativo di Bertinotti di dare una prospettiva comune a sinistra classica e movimenti. Allora la Sinistra Arcobaleno ottenne, per la Camera, 1.124.418 voti, pari al 3,08%. Oggi gli eredi di quella sinistra – dopo scissioni, liti, scomuniche, riunificazioni e continue sconfitte (non affievolita dalla piccola ripresa dell’Altra Europa per Tsipras del 2014) – sono scesi a 469.943 voti, pari all’1,8%: una quota simile, per quantità e per rilevanza (rectius, irrilevanza) politica a quella dei “Comunisti italiani” di Marco Rizzo, poco più di un reperto archeologico tenuto in vita apparente con un incomprensibile accanimento terapeutico degno di miglior causa.
Se la situazione è questa – e non vedo francamente diverse lettura possibili – c’è poco da stare allegri.
Che fare, dunque? Non ho la presunzione di saperlo, anche perché mi sento parte della sconfitta e non voglio certo tirarmene fuori. Ma so che i fatti hanno la testa dura ed è suicida ignorarli: senza una storia completamente nuova – di uomini e donne, di prospettive, di progetti, di parole, di fatti, di linguaggi, di immagine – non c’è alcuna possibilità di ripresa. Non solo i partiti tradizionali e i loro improbabili leader ma la stessa forma partito, così come la conosciamo, è superata, finita, travolta dagli eventi (pur essendo stata – meritoriamente – l’asse portante dello sviluppo della democrazia del dopoguerra). Oggi essa è una parte del problema, non della sua soluzione. Occorrono forme diverse, nuovi modi di partecipazione, una revisione dal basso dei sistemi della rappresentanza. E non basta. Se la sconfitta è radicata nel profondo della società, del sentire diffuso, della cultura, occorre partire da lì, da nuove pratiche sociali e dalle molte esperienze positive esistenti sul territorio (anche lontane dalla politica tradizionale) che vanno ascoltate, valorizzate, messe in collegamento. In attesa che il movimento così originato si dia una espressione e una rappresentanza. Facile a dirsi… Ma bisogna cominciare ora, perché è già tardi. Noi – “Volere la luna”, nome quanto mai opportuno – possiamo offrire luoghi, voce, impegno disinteressato. Non è molto ma è sempre qualcosa.
Nessun commento sull’esito del voto “verde” in Italia?
Sulla possibilità (mancata in Italia) che attraverso l’istanza di eguaglianza portata avanti dall’idea ecologista (per esempio tutela e accesso alle risorse sia in chiave geografica che epocale) possano essere rappresentati e trovare nuova vite alcuni temi propri della sinistra?
Ho l’impressione che i commenti dei risultati elettorali, che rendono con evidenza l’immagine di un’Italia senza sinistra, o quasi, a livello politico-istituzionale (continuo a pensare il PD, anche quello che ha eletto Zingaretti segretario, come un partito di centro), lascino abbastanza in ombra il fatto gravissimo di un espandersi di pensieri, sentimenti e azioni razziste e fasciste nell’ambito delle istituzioni e nel tessuto sociale (il fascismo non è soltanto l’affermarsi di un regime totalitario, come l’Italia ha conosciuto in passato, ma anche un virus che corrode dal di dentro, progressivamente, l’assetto democratico).
Ora più che mai dovrebbe scattare un allarme rosso in grado di mobilitare energie:
– nel mondo intellettuale, dove prevale invece un certo distacco dalle miserie della politica, una sorta di “puzza al naso”, che tiene sull’Aventino persone impegnate, in altri periodi, a sostenere le ragioni della democrazia costituzionale,
– nella realtà della scuola, che ha reagito al di sotto del necessario a fatti gravissimi quali la sospensione dell’insegnante di Palermo,
– negli organi d’informazione, che in generale non avvertono i rischi di chiusura degli spazi democratici,
– nelle organizzazioni sindacali, che, di fronte la deriva del Paese, rimangono nel chiuso delle singole vertenze,
– nelle associazioni e nei movimenti delle donne, scese in campo con “Una di meno”, delle giovanissime e dei giovanissimi, in piazza contro l’emergenza climatica, degli irriducibili antirazzisti e pacifisti, che continuano, seppure isolati, nella loro azione di denuncia dei pericoli che ci sovrastano), in quante/i, cioè, stanno portando avanti iniziative encomiabili senza accorgersi, se non in parte, del clima autoritario e fascista che potrebbe soffocarli.
La destra, quella più reazionaria, è ormai egemone e non incontra un contrasto serio, all’altezza della sfida.
La destra avanza, quindi, e la sinistra non c’è quasi più, travolta dai suoi errori e dalla diffidenza nei confronti della politica, in gran parte giustificata, di coloro che dovrebbero sostenerla.
Eppure, nella società esiste qualcosa di vitale:
– che si muove, produce iniziative e progetti, dà luogo ad esperienze ed interventi solidali, di accoglienza, inclusivi
– che parla ed agisce contro la disumanità imperante,
– che difende i principi costituzionali ed opera per attuarli.
Non ha quasi nessun punto di riferimento, questa parte d’Italia, negli assetti istituzionali e finora, come ho già accennato, non è stata capace, o non ha avvertito l’esigenza, di mettere insieme le sue articolazioni, frammentate e spesso incomunicanti, per far fronte al leghismo/fascismo che avanza.
E’ proprio da qui che bisognerebbe ripartire per ricomporre una massa critica in grado di competere sul piano dell’egemonia culturale con il pensiero oggi prevalente, di influire sul senso comune, di ricostruire una sinistra capace di interloquire con chi vive in condizioni di emarginazione, con le/gli abitanti delle periferie oggi abbandonate ai peggiori influssi razzisti, con quella parte di popolazione che subisce il fascino dei vari populismi o, disillusa, si allontana dalla politica.
I grandi temi odierni, quelli che mettono a rischio la sopravvivenza della Terra e del genere umano – e cioè l’emergenza ambientale e climatica e la violenza bellica, che sconvolge vaste parti del pianeta – sono dovute al sistema capitalistico e patriarcale dominante.
abbiamo due strade di fronte, una che comporta sempre più violenza e distruzioni (fino a quella globale), l’altra che mette in discussione il sistema sulla base di una visione alternativa a quella attuale, secondo un’impostazione che ha le sue radici nella sinistra.
Il contrasto netto al fascismo è la premessa urgentemente necessaria perché si possa mantenere aperta la seconda strada.
Per questo occorre:
– prendere atto fino in fondo di quanto sta avvenendo,
– sollecitare la mobilitazione antifascista delle energie (culturali, sociali, politiche) ancora non pienamente consapevoli della situazione,
– ricostruire la capacità politica di incidere a sinistra attraverso un processo costituente in grado di rapportare tutte quelle energie e risorse citate in precedenza, e tante altre ancora, a quanto di valido rimane delle lotte e delle elaborazioni del movimento operaio.
Antifascismo, antirazzismo, difesa intransigente del senso di umanità, oggi sotto attacco da parte dei livelli istituzionali: questi sono gli elementi su cui fondare un’azione di resistenza che poi riesca anche a passare all’offensiva.
Mentre politologi e firme autorevoli della carta stampata analizzano i risultati complessivi delle elezioni europee e regionali, diamo un’occhiata all’accoglienza che il nostro territorio ha dato alla proposta politica ambientalista, attraverso il voto recente.
Occorre comunque partire dal dato generale per arrivare a quello particolare. Dunque: in Europa c’è stato il boom dei Verdi che, ovviamente sull’onda dell’effetto Greta e del movimento “Friday for future” hanno raccolto forti adesioni tra giovani e progressisti. Forte crescita in Spagna, Olanda e Germania, soprattutto, dove gli ecologisti hanno raddoppiato i consensi e sono il secondo partito. In Francia la lista Europe-Ecologie le Verts si rivela il terzo partito con il 12,8% dei voti.
E in Italia? Europa Verde, l’alleanza tra la federazione dei Verdi e Possibile , ha raggiunto solo il 2,3 per cento dei voti. Il dato è confermato dai risultati conseguiti dallo schieramento presente, nella coalizione di Chiamparino, alle regionali in Piemonte: Liberi Uguali + Verdi = 2,2%.
A Torino, la stessa formazione ha ottenuto una percentuale più alta: il 4,11. Dato che trova conferma nel voto cittadino alle europee: la Sinistra 2,5%, Europa Verde 1,9%: valori leggermente più alti del dato medio nazionale, il quale, se fosse stato raggiunto con un’unica forza riformista e ecologista, avrebbe portato dritti al Parlamento europeo.
E’ vero che queste percentuali possono essere ritenute comunque un successo visto che si partiva da uno striminzito 0,5 dei Verdi, ma l’ ambientalismo italiano resta comunque fanalino di coda rispetto a quello dei maggiori Paesi europei e – quel che è più grave – fuori da Bruxelles.
Ora, poiché i Verdi trovano un’intesa a livello politico nel nostro Paese con le forze progressiste, occorre che queste alzino l’asticella e si pongano un obiettivo più ambizioso: quello dell’unità dei riformisti, nel segno dell’attenzione alle questioni sociali ma anche dell’ impegno sui temi dell’ecosostenibiltà, rispetto ai quali lanciare iniziative nuove, costruttive e coinvolgenti.
Decidendosi, finalmente, a giocare la partita dell’emergenza climatica, lo sguardo ai giovani e al futuro, con convinzione e audacia perché “un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo, dalla fantasia” (De Gregori).
Anna Scotton