In un intervento pubblicato su questo sito (La storia dell’umanità e il diritto di migrare), Luigi Ferrajoli ha invitato ad assumere il fenomeno migratorio come «l’autentico fatto costituente dell’ordine futuro, destinato, quale istanza e veicolo dell’uguaglianza, a rivoluzionare i rapporti tra gli uomini e a rifondare, nei tempi lunghi, l’ordinamento internazionale». Solo la pressione alle nostre frontiere del “popolo degli esclusi” – è il ragionamento – potrà spingerci a ripensare l’ordine politico globale e a mettere in discussione l’iniqua distribuzione delle ricchezze all’origine dei processi migratori.
All’indomani della giornata internazionale contro la violenza maschile nei confronti delle donne, e dalla diffusione dei dati, impressionanti, sulle persecuzioni, gli stupri, gli omicidi che si perpetrano entro gli spazi domestici, potremmo chiederci se esiste ‒ o potrebbe esistere ‒ un “popolo delle donne” in grado di svolgere un’analoga funzione “costituente”. Perché se è vero, come era scritto sugli striscioni dei cortei di questi giorni, che “la libertà delle donne è la libertà di tutti”, il superamento della violenza nelle relazioni fra i generi sembra essere l’indispensabile premessa per porre su nuove basi le relazioni tra i popoli: all’insegna del rispetto, della tolleranza, della convivenza pacifica con le differenze.
Bisogna, certo, sfatare qualche mito. Vivere condizioni di oppressione, dominio, sfruttamento, non predispone, di per sé, a sviluppare una coscienza “rivoluzionaria”. Vale per le donne come per gli immigrati: non tutte le donne sono femministe, o comunque consapevoli della propria condizione; non tutti gli immigrati sono favorevoli all’apertura delle frontiere e alla solidarietà. Qualcuno viene regolarmente candidato dalla Lega, a fare da scudo a posizioni intolleranti e razziste. Qualcuna continua a essere succube e complice di chi la schiaccia.
E tuttavia, nel caso delle donne ci sono oggi i segnali di un ritrovato protagonismo politico, soprattutto là dove il potere torna a esibire i tratti arroganti del machismo e dell’intolleranza nei confronti dei “diversi”.
Riferendosi al #me too e alla mobilitazione delle femministe statunitensi contro Trump, Ida Dominijanni ha parlato di «onda inarrestabile di soggettività politica femminile nel Paese più potente del mondo governato da un presidente suprematista e misogino». Onda che ha contribuito a produrre, alle elezioni di mid-term, risultati straordinari, consentendo di andare oltre «il doppio colpo dell’elezione di Trump […] e della sconfitta di Hilary Clinton, insegna consunta di un femminismo neoliberale troppo concentrato sull’obiettivo della rottura del “soffitto di cristallo”» (Le guerriere del Mid-term, Internazionale, 6 novembre 2018). Un analogo successo non hanno avuto, purtroppo, le donne brasiliane scese in piazza contro l’ipotesi della presidenza Bolsonaro, puntualmente trasformatasi in realtà. Ma ciò non significa che la storia finisca qui.
E in Italia? Il movimento Non una di meno ha avuto il merito, tra l’altro, di denunciare le strumentalizzazioni della violenza nei confronti delle donne, spesso pretesto per politiche securitarie e razziste. E di contribuire a riflettere sugli effetti della precarizzazione del lavoro sulla vita dei più deboli, non solo donne, contestando il modello di reddito di cittadinanza di cui oggi si discute, dai tratti fortemente moralistici e paternalistici.
Di certo, al di là del fenomeno eclatante della violenza, la “questione femminile” assume oggi profili molteplici: la cronica sotto-rappresentanza nei luoghi della politica, gli stipendi inferiori a parità di qualifica, l’iniqua distribuzione del lavoro familiare e di cura, che nel nostro paese sembra resistere a qualsiasi evoluzione dei costumi (si legga, in proposito, lo studio di L. Todesco, Quello che gli uomini non fanno, Carocci, 2013). E c’è poi l’eterna questione della legislazione sul corpo femminile, che assume, oggi, nuove dimensioni. Le piazze di questi giorni hanno nuovamente rivendicato il diritto di scelta in materia di aborto, e contestato la malintesa idea di parità tra i genitori prevista dal disegno di legge Pillon.
Ma nuove frontiere si aprono: quella della piena legittimazione – giuridica e culturale – dello “stupro a pagamento” (la prostituzione, secondo la definizione di Rachel Moran), che avverrebbe se la Corte costituzionale accogliesse i rilievi di costituzionalità contro la legge Merlin recentemente sollevati dagli avvocati di Tarantino (il procacciatore di escort di Silvio Berlusconi). E quella della legalizzazione dei contratti di maternità surrogata, nel nome di un’idea di autodeterminazione femminile molto in sintonia con corposi interessi di mercato (ma in contrasto con l’art. 3 della Carta di Nizza, che vieta di fare «del corpo umano e delle sue parti una fonte di lucro»).
Questioni che riguardano le donne, e i loro corpi, ma non solo. Che ci interrogano sui fondamenti della società in cui vogliamo vivere: un mondo dove tutto si vende e si compra, anche le prestazioni sessuali e riproduttive. Oppure un mondo di persone, dotate di dignità, e non di un prezzo. In cui la libera iniziativa economica non si svolga «in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana».