Se il Barometro dice Boomerang

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A sei medi dalle elezioni politiche e a 100 giorni dalla formazione del nuovo governo, i sondaggi danno ragione alla coalizione giallo-verde confermandone il carattere “pigliatutto”:  messi insieme, infatti, Lega e 5Stelle otterrebbero se si votasse oggi il 62,2% dei voti (cioè del 71% di elettori che si recherebbero alle urne): la Lega facendo ben 15 punti percentuali in più rispetto al 4 marzo, i grillini perdendo relativamente poco, circa due punti. La prima svuotando in pratica Forza Italia (portandole via quasi metà del risicato elettorato che allora aveva conservato) e dimezzando Fratelli d’Italia; gli altri cedendo molto meno del previsto all’arrembante Salvini. Resta al palo il Pd (17%, due punti sotto il già catastrofico risultato di marzo) insieme a Leu (a sua volta dimezzata rispetto al poco che già allora aveva preso).

 

Anche il giudizio sull’operato del Governo rimane impressionantemente alto. E questo nonostante le critiche siano state numerose fin dalla fase di gestazione, da parte non solo – e non tanto – dall’opposizione politica (il PD in primis) apparsa tramortita e fuori gioco, ma pressoché da parte di tutta la grande stampa, le televisioni, i cosiddetti “poteri forti” (Confindustria a ranghi serrati, BCE, Commissari Europei, agenzie di rating, ecc,). Il che la dice lunga sull’efficacia di campagne come quella di “Repubblica”, con il fuoco sparato sul vero e tanto male (la politica disumana nei confronti dei migranti, affidata per la verità quasi solo alla penna coraggiosa di Saviano) e insieme sul poco e ipotetico bene (il rifiuto preconcetto di sia pur timide politiche sociali, la difesa a oltranza del piano Calenda sull’Ilva, dei Benetton e della società Autostrade,  l’irrisione del reddito di cittadinanza,  dell’idea stessa di nazionalizzazione per servizi essenziali come le infrastrutture autostradali, ecc.). Non giovano le balle sparate dai giornaloni a difesa degli indifendibili interessi dei loro proprietari (sul TAV in Val di Susa, per esempio, o sul TAP in Pugla, o sulla Gronda di Genova), che rendono poco credibili anche le (poche) giustificate denunce (come nel caso dei milioni di Euro occultati dalla Lega)… Per non parlare del Pd, che sembra far a gara per scegliersi obiettivi impopolari nella propria campagna d’autunno più feroce (si direbbe) contro i 5Stelle che contro Salvini e i suoi macellai (la difesa a oltranza del pareggio di bilancio e dei vincoli europei, della riforma pensionistica, del rigore e dell’austerità…). Il loro bollettino on line, “Democratica”, è arrivato ad attaccare Maurizio Landini per aver apprezzato l’accordo sull’Ilva giudicato (a ragione) migliore di quello del governo precedente (“Landini che fai, fiancheggi?”, di Mario Lavia).

 

Mai come oggi – nel momento in cui il sovranismo nero della lega di Salvini sembra monopolizzare spazio mediatico e agenda politica imponendo il proprio segno alla coalizione di governo e “mettendo sotto” il socio di maggioranza Di Maio -, mai come oggi appare ottusa e miope la scelta del Pd di mettersi da parte e rinunciare a far politica: di stare sulla sponda del fiume ad aspettare che passi un cadavere che non arriverà mai anziché lavorare per spezzare quell’asse in parte ibrido, e offrendo una seconda sponda ai 5Stelle permettere loro (almeno in ipotesi) di liberarsi da quella collaborazione forzata con il socio ingombrante. La forza di Salvini sta nella possibilità di lavorare con i “due forni” avendo pur sempre la soluzione di scorta dell’alleanza con Berlusconi. La debolezza di 5 stelle sta nella loro solitudine. “Far politica” significherebbe rompere quel quadro statico. Creare movimento. Sparigliare le carte. Aprire scenari alternativi. Invece Matteo Renzi paralizza -pietrifica – il (non più) suo partito in attesa che la sua logorata leadership riacquisti una qualche improbabile possibilità, e intanto l’onda nera si allarga, trova sponde in Europa, usa il governo come megafono della propria propaganda. E minaccia di fare, presto, tutto da sola, pescando nell’enorme bacino di malessere e di disagio che gli “altri” hanno generato, e che il governo non potrà ridurre ma potrà abbondantemente usare.

 

 

Due giovani italiani su tre ritengono che chi  oggi studia o inizia a lavorare occuperà in futuro una posizione sociale ed economica peggiore rispetto alla precedente generazione. Un quarto immagina una condizione non molto diversa dai padri. Solo il 9% ipotizza condizioni migliori.  L’80% di quegli stessi  giovani  pensa che nel nostro Paese  la disuguaglianza intergenerazionale sia cresciuta. Sono appunto le condizioni socio-psicologiche in cui, in assenza di alternative radicali e credibili, di possibili rotture dello status quo, crescono le opzioni cosiddette populiste, intreccio di pessimismo sociale, rancore esistenziale, disillusione morale.  La responsabilità di chi non ha fatto nulla per costruire e alimentare quell’alternativa sarà immensa. E inescusabile.

Gli autori

Marco Revelli

E' titolare delle cattedre di Scienza della politica, presso il Dipartimento di studi giuridici, politici, economici e sociali dell'Università degli Studi del Piemonte Orientale "Amedeo Avogadro", si è occupato tra l'altro dell'analisi dei processi produttivi (fordismo, post-fordismo, globalizzazione), della "cultura di destra" e, più in genere, delle forme politiche del Novecento e dell'"Oltre-novecento". La sua opera più recente: "Populismo 2.0". È coautore con Scipione Guarracino e Peppino Ortoleva di uno dei più diffusi manuali scolastici di storia moderna e contemporanea (Bruno Mondadori, 1ª ed. 1993).

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