Al termine capitalismo sono stati attribuiti, in anni recenti, numerosi aggettivi e specificazioni. Si va dal capitalismo cognitivo al biocapitalismo, da quello relazionale (o Crony capitalism), al tecno o turbocapitalismo, senza dimenticare il capitalismo finanziario o finanzcapitalismo, nell’accezione di Luciano Gallino. Questi aggiornamenti sono interessanti in un ambito specialistico, ma nel linguaggio diffuso e in quello mediatico portano con sé un rischio: che si concentri l’attenzione nel tenere sotto controllo le nuove varianti del virus, portandoci a pensare che, rispetto al ceppo originario, quello del buon vecchio capitalismo storico, siamo ormai vaccinati e capaci, con qualche cautela, di addomesticarlo. D’altra parte there is no alternative, siamo d’accordo!?
Ma l’errore, anche nel paragone col virus pandemico, sta nel non considerare che la mutazione è proprio nella sua natura: per sopravvivere e diffondersi il virus produce varianti, ma l’origine è sempre quella. Già Marx lo aveva previsto con chiarezza quando, nel terzo libro del Capitale, scriveva sul sistema finanziario: «Esso riproduce una nuova aristocrazia finanziaria, una nuova categoria di parassiti nella forza di escogitatori di progetti, di fondatori e di direttori semplicemente nominali; tutto un sistema di frodi e di imbrogli relativi alle fondazioni, alle emissioni di azioni e al commercio di azioni». Citando Gallino (Finanzcapitalismo, la civiltà del denaro in crisi, Einaudi, 2011), possiamo anche chiarire che «non s’intende riproporre la tradizionale concezione che rinvia al potere del capitale». In suo luogo si avanza la nozione di capitale come forma di potere in sé, un potere organizzato su larghissima scala. Stando a questa nozione, «i capitalisti sono mossi non dall’intento di produrre cose bensì da quello di controllare persone, e la loro mega-macchina capitalistica esercita questo potere con efficienza, flessibilità e forza […]. Non è esatto dire che il capitale ha potere. Il capitale è potere. Il potere di decidere che cosa produrre nel mondo, con quali mezzi, dove, quando, in che quantità». Dunque, un sistema di potere basato sul controllo dell’economia, quella capitalistica appunto, che si cerca subdolamente di elevare al livello di scienza, nell’acquiescenza generale e con il sostegno di molti economisti mercenari.
Per imporre nel mondo (a partire da quello occidentale) un sistema di potere, sono state necessarie anche una mentalità diffusa, quella borghese, e qualche forma di giustificazione morale. È un tema che richiederebbe decine e decine di pagine, ma pochi accenni possono aiutare a inquadrarlo. Da Il lupo dalla steppa di Herman Hesse, si può trarre qualche gustosa pennellata impressionistica sull’essenza della borghesia: «Il lupo della steppa […] aveva in dispregio i borghesi […] tuttavia faceva una vita assai borghese, possedeva denaro depositato nelle banche, soccorreva i parenti poveri, si vestiva senza ricercatezza ma decentemente e cercava di vivere in buona armonia con la polizia, con l’esattore delle tasse e simili autorità. […] La borghesia, condizione immanente dell’umanità, non è altro che un tentativo di equilibrio, l’aspirazione a una via di mezzo tra gli innumerevoli estremi e poli contrapposti della vita umana. […] Per sua natura, dunque, il borghese è una creatura di debole slancio vitale, paurosa, desiderosa di evitare rinunce, facile da governare. Perciò ha sostituito al potere la maggioranza, alla violenza la legge, alla responsabilità la votazione». Eccoli qui i “borghesi piccoli piccoli” di Cerami e Monicelli che, anche quando il capitalismo contemporaneo ha incominciato a penalizzarli e a escluderli dalla baldoria, sono rimasti obbedienti sudditi, nei fatti sostenitori della conservazione o piuttosto dell’arretramento.
Riguardo alla giustificazione morale, il riferimento inevitabile va all’opera di Max Weber che, in parziale polemica con Marx, identifica nel lavoro come valore in sé l’essenza del capitalismo e ne riconduce lo spirito all’etica della religione protestante, in particolare calvinista. Per Weber, infatti, il capitalista vero è colui che ottiene la massima soddisfazione dal conseguimento del profitto in sé, che diventa segno della grazia divina, e viene reinvestito per generare nuove iniziative economiche. Questa presunta superiorità morale del capitalista è diventata nei secoli un’ottima giustificazione per le politiche colonialiste di rapina e di oppressione o sterminio delle popolazioni native, nelle Americhe, in Africa e in gran parte degli altri continenti. Nella morale cattolica non c’è un esplicito riferimento allo spirito capitalista; la vocazione al lavoro e la ricerca del profitto non hanno un valore riconosciuto per il raggiungimento della grazia divina, ma essa non pone nessun freno reale allo sfruttamento e alla distruzione. Avendo nell’ipocrisia il più consolidato carattere distintivo, la chiesa cattolica raccomanda la fratellanza ma, al tempo stesso, ti rassicura: se anche ne combini di tutti i colori, l’importante è che tu abbia fede e ti dichiari pentito, prima di crepare. Così verrai perdonato e potrai evitare il castigo eterno: una vera manna per delinquenti di tutti i generi!
A proposito di delinquenti, si può rilevare una forte, ma non sorprendente, coincidenza del capitalismo con i metodi delle mafie internazionali, che si assicurano il potere con il controllo dell’economia e dei territori. Anche i grandi capitalisti godono di un’omertà diffusa da parte della borghesia, oltre a una rete di corruzione e collusioni che attraversa una parte importante delle istituzioni. Insomma, il capitalismo ha un via libera molto ampia sul piano ideologico, dei comportamenti individuali e della morale, ma questo non è ancora sufficiente per assicurare il suo dominio sul mondo.
I capitalisti sono efficienti, non perché sono più in gamba di noi sognatori di sinistra, ma perché il loro obiettivo, arricchirsi per consolidare il proprio potere e viceversa, è molto più semplice del nostro, che cerchiamo con fatica i modi per garantire giustizia, eguaglianza e libertà a tutti. Il capitalismo è rapido nell’adottare strumenti di contrasto preventivo a ogni tentativo del popolo di tirare su la testa. Nella varietà dei metodi, esso può passare senza discontinuità dalla repressione violenta, con guerre, colpi di Stato, strategie provocatorie, al sorriso benevolo di chi promette progresso e un po’ di benessere attraverso l’innovazione tecnologica. Il capitalismo è creativo. Se pensiamo alla sua capacità di creare immensi patrimoni privati attraverso i servizi della rete digitale che sono, a prima vista, gratuiti, non possiamo che restare a bocca aperta di fronte al genio criminale. Ovviamente la gratuità è finta, perché la vendita dei dati alle imprese si traduce in assillante pubblicità mirata, i cui costi si riversano sui prezzi delle merci che compriamo. Senza dimenticare l’aumento della capacità di controllo sulle nostre scelte, anche politiche. In altri termini, il capitalismo si fa pagare da noi per condizionarci meglio!
Questa minirassegna delle potenzialità del capitalismo potrebbe continuare ancora, ma ci sono gli studi e le analisi citati all’inizio, che offrono ampie possibilità di approfondimento. Conviene qui passare ai tentativi, più o meno timidi, di reazione in atto. Innanzitutto, ci sono i contributi di un gruppo piuttosto consistente di economisti democratici, che prendono sul serio il proprio ruolo. Allora guardiamo a Thomas Piketty, che si occupa delle eccessive diseguaglianze di reddito e della loro compensazione attraverso il prelievo fiscale; a Joseph Stiglitz che, insieme allo scomparso Fitoussi, criticava l’utilizzo del PIL come misuratore della crescita anziché del benessere (Misurare ciò che conta, Einaudi, 2021); ad Amartya Sen, che spiega come legare lo sviluppo all’aumento della qualità della vita; a Mariana Mazzucato, che parla di innovazione, conoscenza e sviluppo; a Emiliano Brancaccio, che tenta di conciliare l’impostazione marxista con quella neokeynesiana. Ne derivano rivendicazioni, in sé legittime e urgenti, che non intaccano l’accettazione complessiva dei meccanismi di mercato, considerati dai più come insostituibili: la crescita economica rimane la soluzione più adatta per agevolare l’accesso al benessere e una sua migliore distribuzione.
Se passiamo all’attività politica concreta delle poche forze di sinistra ancora operanti, risulta evidente la concentrazione su rivendicazioni parziali. Con quella che può apparire nostalgia per gli anni del boom economico e del consolidamento del welfare, si chiedono salari adeguati, servizi sociali garantiti, spazio alle rivendicazioni sindacali, contrasto agli squilibri eccessivi e alle più evidenti speculazioni. Tutto ciò è ben comprensibile, perché le poche lotte che si riescono a mettere in campo hanno bisogno di obiettivi concreti e perseguibili, con possibilità di successo almeno discrete. Sulle continue sconfitte non si costruisce un’alternativa credibile. Però sembra che ci si accontenti dell’ipotesi di quel “capitalismo dal volto umano” che ha avuto un po’ di spazio nelle socialdemocrazie europee del secolo scorso. Un altro livello di intervento sul territorio è quello del mutualismo che, con azioni concrete di volontariato, cerca di ricostruire il senso positivo della comunità e della cooperazione. Si tratta di iniziative che meritano il massimo rispetto, ma che rischiano di attenuare l’urgenza della conflittualità, in una prospettiva politica più ampia.
L’urgenza è data da condizioni che, fino a pochi anni fa, era raro che venissero espresse pubblicamente, al di fuori degli ambiti scientifici e degli addetti ai lavori. La combinazione tra l’esaurimento delle risorse, con la devastazione dell’ambiente, i cambiamenti climatici e l’incremento demografico concentrato nei Paesi più poveri ci mette di fronte ad alternative non più eludibili. Da un lato, ci sono le già visibili reazioni del capitalismo mondiale, che allestisce sistemi di controllo, di sfruttamento e di isolamento sempre più brutali. Dall’altro abbiamo la possibilità di realizzare forme di convivenza del tutto nuove (o forse antiche?).
Alla politica di sinistra va richiesto di riportare in auge l’idea di rivoluzione: una rivoluzione che potrà evitare di essere cruenta soltanto a condizione di una straordinaria confluenza di pensieri innovativi e costruttivi con le azioni concrete di coinvolgimento sui territori. Serve una progettualità quanto più possibile competente e scientifica, ma certo non astratta ed elitaria. Su questo piano, per esempio, va attuata una campagna di divulgazione per contrastare l’idea che i dogmi economici capitalistici, che ci vengono imposti, abbiano una base scientifica. È francamente ridicolo che, quando si accenna all’opportunità di portare un po’ di cultura economica nelle scuole, si faccia riferimento ai meccanismi del mercato azionario e alla più conveniente gestione dei risparmi familiari. L’economia, fortunatamente, è tutta un’altra cosa: è l’insieme di conoscenze che ci dovrebbero guidare a utilizzare le risorse disponibili (senza esaurirle) per soddisfare i bisogni, in continuo assestamento, di tutta l’umanità. La studio della storia e delle discipline umanistiche, incrociandosi con le cosiddette scienze esatte, ci può fornire importanti suggerimenti su ciò che funziona o non funziona, superando i più ingannevoli preconcetti ideologici.
L’attività politica organizzata deve a sua volta impegnarsi nell’ascolto e nel dialogo con le persone, una necessità tante volte richiamata e mai attuata fino in fondo. Parlare col popolo e capirne i bisogni, le aspirazioni e punti di vista non ha niente a che fare con il populismo: anzi, è proprio il suo contrario. Ma le risposte che diamo devono essere corrispondenti a una visione del mondo che, per la sinistra, trova le sue basi nella critica al capitalismo e nelle soluzioni per il suo superamento. Cercando di superare la diffidenza, anche linguistica, verso la “decrescita felice”, si è incominciato a parlare di “economia della cura”: un’espressione poco convincente, che propone una visione volontaristica (o fideistica) tesa a superare l’individualismo, che sembra lontana dalla concretezza scientifica del marxismo. Ma il confronto è aperto, senza preclusioni di sorta; le nostre responsabilità verso il futuro, soprattutto quello delle giovani generazioni in tutto il mondo, sono troppo grandi per non impegnarci al massimo delle nostre possibilità.
Brancaccio che concilia keynesismo e marxismo? Mah, non la farei così semplice… E poi qui parla chiarissimo di rivoluzione, proprio come risposta a un keynesiano come Blanchard:
https://www.emilianobrancaccio.it/wp-content/uploads/2020/10/CATASTROFE-O-RIVOLUZIONE-di-Emiliano-Brancaccio-Il-Ponte-6-2020.pdf
Kugel
Ringrazio per la precisazione. In un articolo la semplificazione è spesso inevitabile, soprattutto quando si tentano di usare linguaggio e ragionamenti di ampia accessibilità. L’interessante testo di Brancaccio molto accessibile non lo è… La mia intenzione non è certo quella di sminuire né lui né altri economisti critici, quanto di stimolare un dibattito più ampio sull’insostenibilità del capitalismo.
D’accordo su tutto.A proposito del prof.Brancaccio la semplificazione che lei ha fatto a me sembra logica..Occorre chiarire che la maggior parte degli economisti mainstream pensa che la loro disciplina abbia profonde basi scientifiche anziché ammettere che è semplicemente una “convenzione fra umani” (prof.Angelo Tartaglia docet).Commercialisti esclusi…
Al proposito voglio ricordare la frase finale tratta da un testo di Bernard Maris (economista,amico di Serge Latouche,ucciso nella sede di Charlie Hebdo ) : “tra cent’anni ci chiederemo a cosa servivano gli economisti : a nulla”. Complimenti per l’articolo. PS.titolo del libro: “Lettera aperta ai guru dell’economia che ci prendono per imbecilli “