Cercare la felicità pubblica: un’esperienza

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In un giustamente famoso libro (Felicità privata, felicità pubblica, Il Mulino, 1983), Albert Hirschman descrive i meccanismi che governano l’alternarsi dei cicli di impegno individuale a quelli di impegno collettivo. Il cosiddetto “pendolo di Hirschman” è la rappresentazione plastica dell’alternarsi di diverse fonti di gratificazione, tanto nello scorrere del tempo storico, quanto lungo le biografie individuali o le coorti di nascita. Non c’è nulla di male o di strano nel cercare la felicità, tanto quella pubblica che quella privata. Tutti noi lo facciamo e sarebbe ben strano il contrario. C’è chi, concentrato sul proprio benessere privato, acquista ogni genere di beni di consumo e, una volta ottenuto ciò che desidera, scopre spesso di non aver raggiunto la felicità cercata e “alza la soglia” o diversifica in una rincorsa infinita. La delusione maturata, continua Hirschman, lo spingerà a impegnarsi in qualche tipo di azione di interesse pubblico. Ma anche la vita pubblica riserva una quantità di frustrazioni, che spingeranno il soggetto a ritornare al suo mondo privato.

Una importante caratteristica dell’impegno pubblico è la sua dipendenza dal processo: le azioni pubbliche contengono in sé stesse la propria ricompensa. Sono cioè azioni dotate di valore intrinseco e di una “razionalità di processo”, dove il segmento dei costi (mezzi) si sovrappone a quello degli esiti (fini). È la razionalità del pellegrino, ma anche di chi ama il trekking: il tragitto è parte integrante della soddisfazione. Sareste soddisfatti, come amanti del trekking, se un elicottero vi portasse in cima alla montagna? No, ovviamente. Una ulteriore caratteristica dell’azione pubblica è che chi non partecipa e non “paga i costi” dello sforzo condiviso, non è riconosciuto dagli altri come “uno di noi” e, quindi, verrà escluso dei benefici che il gruppo riserverà solo a chi ha “fatto il percorso assieme”. Per tornare all’esempio: chi raggiunge la cima in elicottero, si mangerà il panino da solo e nessuna gli rivolgerà la parola. Così è per l’impegno civico, quello associativo e quello politico. Lo sforzo non è un costo da evitare, ma una condizione che permette di essere riconosciuto come membro del gruppo identificante.

Di questi tempi, l’azione collettiva e l’impegno pubblico sono una fonte di felicità che si dovrebbe riscoprire. Ci sono certamente forme di impegno pubblico importanti anche oggi, come gli spazi associativi legati all’attivismo civico, che Giovanni Moro ha qualificato con il concetto di “cittadinanza attiva”, intesa come: «l’insieme di forme di auto-organizzazione che comportano l’esercizio di poteri e responsabilità nell’ambito delle politiche pubbliche, al fine di rendere effettivi i diritti, tutelare i beni comuni e sostenere i soggetti in condizioni di debolezza» (https://www.treccani.it/enciclopedia/la-cittadinanza-attiva-nascita-e-sviluppo-di-un-anomalia_%28L%27Italia-e-le-sue-Regioni%29/). Del resto, come nota lo stesso Moro, si tratta di un fenomeno che vede nel tempo aumentare il numero delle organizzazioni e diminuire quello delle persone in esse impegnate come volontari o attivisti. La letteratura sul capitale sociale (L. Sciolla, “Quale capitale sociale? Partecipazione associativa, fiducia e spirito civico”, Rassegna Italiana di Sociologia, 2/2003, pp. 257-290) e l’associazionismo (R. Biorcio e T. Vitale, Italia civile. Associazionismo, partecipazione e politica, Donzelli, 2016) ha da tempo messo in luce il rapporto tra legami orizzontali nella società civile, fiducia e spirito civico. Seppur più limitata dal punto di vista quantitativo e dai confini più sfumati, la cosiddetta azione sociale diretta è un ulteriore esempio (L. Bosi e L. Zamponi, Resistere alla crisi, Il Mulino, 2019) delle possibili risposte a un bisogno materiale che riposiziona gli individui nei confronti della collettività.

A differenza del “pendolo di Hirschman” dove la felicità pubblica coincideva in grandissima parte con la politica istituzionale, l’intermediazione partitica e l’organizzazione del consenso elettorale, queste forme di “fermento sociale” – compresa la meritoria iniziativa di “Volere la Luna” che ospita questo intervento – sono lontane dal potere istituzionale e dalle persone-nei-ruoli che decidono in merito a ciò che interessa la collettività. Le sorti del PNRR, l’autonomia differenziata, il sistema sanitario, le politiche di regolazione del mercato, l’equità fiscale, i sussidi ambientalmente dannosi, e così via, sono decisi da chi occupa ruoli istituzionali. La pressione incrementale e pluralistica del fermento sociale organizzato, funziona solo se ha il potere di organizzare il consenso, di mobilitare gli immaginari o di smuovere le istituzioni. Funziona, come mostra il caso del protocollo di Montreal, solo se esiste un attore pubblico terzo che si fa garante credibile dell’applicazione delle regole co-decise (si vedano le considerazioni da me scritte con Fabrizio Barca e i link alle interviste a Charles Sabel citate (https://www.forumdisuguaglianzediversita.org/come-affrontare-la-sfida-climatica-la-risposta-di-charles-sabel/).

Fabrizio Barca e Andrea Morniroli dalle pagine de La Stampa del 29 settembre 2022, hanno sostenuto che la responsabilità del distacco tra i partiti istituzionalizzati e il “fermento sociale” risiede nell’incapacità dei partiti di intercettare e valorizzare le persone e le proposte “dal basso”. La diagnosi di Barca e Morniroli è più che condivisibile nelle sue linee generali ed è evidente a chiunque conosca il caleidoscopio di esperienze di innovazione radicale che costella il Paese. Una conoscenza di grana fine del policentrismo territoriale italiano, e delle esperienze che lo caratterizzano, restituisce un’ampia e ricca fenomenologia di casi di produzione, gestione e distribuzione di beni e servizi che hanno conseguenze importanti per i diritti di cittadinanza, l’ambiente, la coesione sociale. Esperimenti che generano micro-modelli di sviluppo dove crescita economica, equità sociale e sostenibilità ambientale cercano nuovi e più virtuosi punti di equilibrio. Spesso nella forma di azioni collettive situate a livello sub-locale, vuoi nelle aree interne, nelle città piccole e medie, nelle periferie urbane o nei “luoghi che non contano” spesso lontani dai centri delle grandi città o situate ai loro margini. Spesso si tratta di iniziative culturali, di mutualismo, di auto-governo dei luoghi e di rigenerazione civico-associativa che creano coinvolgimento e redistribuzione del potere.

Da cosa dipende il “baratro” che le separa dalla politica? Secondo Barca e Morniroli, la responsabilità maggiore è dei partiti e della rottura del rapporto di rappresentanza. È una tesi coerente con l’affermarsi del leaderismo mediatico che ha segnato la politica italiana. La crisi di legittimità dei partiti coincide con la crisi del rapporto di rappresentanza, che si trasferisce alla crisi delle istituzioni democratiche. Non sorprende quindi che i partiti siano all’ultimo posto nella graduatoria della fiducia istituzionale degli italiani, segnala l’ISTAT: poco meno di una persona di 14 anni e più su quattro è completamente sfiduciata mentre almeno una su due assegna scarsi livelli di fiducia (https://www.redattoresociale.it/article/notiziario/italia_in_crescita_ma_sempre_bassa_la_fiducia_nelle_istituzioni_partiti_politici_all_ultimo_posto). Il paradosso è che i partiti sono sempre (e giustamente) invocati come co-essenziali alla democrazia – “senza partiti non c’è democrazia” si sente spesso affermare – senza però mettere a tema il loro funzionamento democratico, la scarsa democrazia interna, la trasparenza e il pluralismo dei processi decisionali che dovrebbero caratterizzarli. La personalizzazione della politica ha scalzato la dimensione organizzata e i leader politici sono diventati più importanti a spese dei partiti organizzati e delle identità collettive. Ma è anche una tesi parziale e che, soprattutto, non indica possibili soluzioni. Il distacco tra partiti e fermento sociale è anche dovuto a un meccanismo di auto-esclusione dovuto alla gratificazione intrinseca che queste esperienze di “felicità pubblica” trasmettono a chi le anima. È, in altri termini, proprio il buon funzionamento del “fermento sociale” che può contribuire a disincentivare la presa in carico in prima persona dell’azione nella politica istituzionale.

Non si tratta solo o tanto del voto elettorale, da qualunque parte vada. Ma della scarsa o nulla volontà del “fermento sociale” di mettersi in gioco direttamente nella vita politica e dentro le istituzioni, come offerta di futuro e capacità organizzativa (tema che discuto nel mio libro “Le piazze vuote”, in uscita a ottobre per Laterza). Ci sono certo ottime ragioni per non farlo. Anche i partiti ideologicamente più vicini a questi mondi si sono ridotti in grandissima parte e con poche eccezioni a sistemi di gestione del potere, attenti solo a posti, risorse, scambi, controllo. Il “fermento sociale” si usa quando serve per ragioni di consenso e comunicazione, ma senza un vera redistribuzione del potere di agenda. Gli standard sono poi giudicati come eccessivamente bassi: c’è molta più politica e visione di futuro nella gestione condivisa di una comunità energetica, o nel piano industriale scritto dal Collettivo di fabbrica GKN, che negli stantii processi decisionali di un partito politico. Proprio queste buone ragioni, del resto, costituiscono una trappola: la politica è partigiana e le decisioni che contano dentro le istituzioni non avvengono per magnanimità, lungimiranza o casualità. In Italia, come dappertutto, sono le persone nei ruoli che – quando possono – decidono. Se anche si pensasse che sono altri poteri – nascosti, opachi e non elettivi – a decidere, è comunque con questi ruoli politici che tali poteri devono mediare, negoziare e cercare qualche forma di compromesso. La mafia, se deve trattare, lo fa con lo Stato e non con il “fermento sociale”.

Certo, la responsabilità maggiore è dei partiti, non fosse altro per via dei rapporti di forza asimmetrici e della diversità dei ruoli ricoperti. Ma se le cose stanno anche così – e se non si può chiedere ai partiti ciò che non sono strutturalmente in grado di fare, cioè auto-riformarsi – occorre mettere a tema l’autosegregazione che il fermento sociale diffuso attua nei confronti della politica attiva. Cercando di immaginare delle soluzioni. Un “fermento sociale” radicalmente separato dalla politica istituzionale non è in grado di generare un’offerta di futuro e una direzione auspicabile verso cui muoversi, insieme, come collettività organizzata (è stata soprattutto Mariana Mazzucato a insistere su questo aspetto in Missione economia. Una guida per cambiare il capitalismo, Laterza, 2021). È un paradosso che va affrontato: la separatezza del “fermento sociale” dalla politica istituzionale contribuisce a riprodurre il carattere nomocratico delle regole comuni e non quello – di cui c’è un grande bisogno – teleocratico. Come ho scritto in un articolo per il manifesto (https://ilmanifesto.it/extra-profitti-la-bussola-perduta-della-sinistra) una teleocrazia è una società basata su scopi di ordine superiore, stabiliti dalla collettività organizzata e, in ultima analisi, dalla politica. Una nomocrazia, al contrario, è una società dove non c’è nessun fine superiore da rispettare. Gli individui sono liberi in quanto perseguono i propri obiettivi senza danneggiare altri nel farlo. È, questa, l’idea di libertà dalla coercizione che disdegna ogni forma di scopi comuni e criteri di giustizia sociale. Ne consegue che nelle società nomocratiche – fondamento ultimo e più importante dei sistemi neoliberali – la politica non deve occuparsi di fini collettivi ritenuti “giusti”. La giustizia è ridotta alla sommatoria delle scelte individuali e del “libero gioco” della domanda e dell’offerta. Le regole formali si adeguano. Tutto il resto un’indebita interferenza.

Personalmente, sono da sempre sostenitore di questa tesi che per semplicità chiamerei la “trappola della micro-politica” o il “paradosso della felicità pubblica” (dopo Hirschman…). Anche per questo ho partecipato fin dall’estate scorsa alla costruzione di “Unione Popolare” (https://unionepopolare.blog/adesioni/). L’ho fatto solo come ricercatore impegnato nella vita pubblica, portando idee, suggerimenti e indicazioni. Ma l’ho fatto con continuità e convinzione. Ora, dopo un anno di lavoro collettivo, è nato un nuovo spazio politico organizzato. Di per sé, come nota Piero Bevilacqua (https://www.sulatesta.net/wp-content/uploads/2023/07/Su-la-testa-2023_05_WEB.pdf), la notizia che a sinistra ci si unisca invece di dividersi – e lo si faccia dopo un risultato non brillante – è già di per sé un evento meritorio di considerazione.

La felicità pubblica non si raccoglie sugli alberi, come le mele mature. Richiede apprendimento, impegno, mediazione relazionale e orizzonte strategico. A differenza della felicità privata, nasce a cresce nel tempo e dentro le relazioni. A riguardo, sottolineo quelli che per me, in questo percorso, sono stati gli ingredienti principali che hanno consentito la felice costruzione dell’attore collettivo. Primo, come sempre, contano le persone. Da Luigi de Magistris che si è speso con una passione e una energia davvero impressionanti, alle classi dirigenti e ai portavoce dei partiti e delle associazioni “fondatrici” (DemA, Manifesta, Potere al Popolo, Rifondazione Comunista), alle militanti e agli intellettuali che hanno lavorato al modello e alla sua attuazione concreta, nulla sarebbe stato possibile senza il piacere e le difficoltà del “fare insieme”. Qui un punto per me dirimente. La semplice esperienza del fare insieme è, già nel Trattato sulla natura umana di David Hume, una leva per l’emergere di obbligazioni condivise: «Due uomini che spingono una barca a forza di remi lo fanno in virtù di un accordo o di una convenzione, sebbene essi non si siano dati alcuna promessa reciproca. La regola della stabilità del processo non solo deriva dalle convenzioni umane, ma sorge inoltre gradualmente e acquista forza attraverso un lento progresso, e in virtù di una reiterata esperienza degli inconvenienti che sorgono dal trasgredirla. Questa esperienza, anzi, ci dà ulteriori assicurazioni che la consapevolezza del reciproco interesse è divenuta comune a tutti i nostri compagni e ci dà fiducia sulla futura regolarità della loro condotta» (D. Hume, Trattato sulla natura umana (1740), in Id., Opere filosofiche, a cura di E. Lecaldano, vol. I, Laterza, 1993, p. 518, libro III, parte II, sezione II).

Da questo punto di vista, Unione Popolare è anzitutto un nuovo oggetto o spazio politico mobilitante, che genera coesione e condivisione a valle dell’azione-in-comune. Una forma della politica di tipo “ricompositivo” e che lascia gli strumenti persuasivi agli attori che vengono coinvolti nel processo, senza pretendere di dettare sin dall’inizio e una volta per tutte una visione giusta e ottimale a cui bisogna aderire. La visione completa, per questa via, si ricompone alla fine e non all’inizio del processo. Un oggetto politico o mobilitante che può condurre a un qualche atto istitutivo (rappresentanti, un contratto collettivo, la sottoscrizione di un progetto, un piano di azione coordinato, un nuovo attore collettivo, una spazio politico). La mobilitazione non ha così il carattere edificante-pedagogico di guida alla scoperta dei significati perduti, nascosti o traditi della consapevolezza politica (valori, visioni, intenzioni). Certo esistono orientamenti ideologici (per fortuna!) e valoriali condivisi, che sono però la condizione necessaria ma non sufficiente dell’azione collettiva. È stata soprattutto la mobilitazione e la creazione di occasioni per “fare insieme” che ha permesso di superare le fasi critiche e di proseguire anche quando sembrava prevalere lo stallo, non la discussione sui valori ultimi. Unione Popolare è nata perché molte persone si sono impegnate nel presidio dell’attuazione, dalla piattaforma, alla comunicazione, alla scrittura del Manifesto e dello Statuto. I valori certo ci sono, ma rimangono “dati per scontati” sino a che un evento esterno non obbliga a metterli in chiaro. Soprattutto, sono valori-in-azione che indicano delle cose da fare, non solo o non tanto dei precetti astratti. Per così dire, liturgia e dottrina sono imbricate. In secondo luogo, è stata per me cruciale l’attenzione spasmodica per il modello organizzativo: se le persone sono cruciali, la politica è soprattutto organizzazione. La leva organizzativa è una risorsa stupidamente dimenticata dalla sinistra. È l’organizzazione – come ben sanno le corporation – che pone le basi dell’efficacia dell’azione, tutela gli interessi, permette processi decisionali condivisi, crea spazi e risorse, connette centri e periferie. Infine, la dialettica interna: a volte dialogica, spesso conflittuale, ma sempre orientata alla costruzione dell’attore. Mediare dove necessario, non cedere dove possibile. Non solo e non sempre per “il potere interno”. Anche per quello, dal momento che la politica è consustanziale al potere. Ma sempre con la capacità di chiedersi: “potere per chi”? Una domanda dimenticata dalla politica, che si è troppo spesso accontentata di rispondere: “potere per il potere”.

Gli autori

Filippo Barbera

Filippo Barbera è professore ordinario di sociologia economica e del lavoro presso il Dipartimento CPS dell’Università di Torino e fellow presso il Collegio Carlo Alberto. Si occupa di innovazione sociale, economia fondamentale e sviluppo delle aree marginali. Tra le sue pubblicazioni più recenti, “Economia Fondamentale”, Einaudi, 2019 (come Collettivo per l’economia fondamentale) e “Metromontagna” (a cura di, con Antonio De Rossi, Donzelli, 2021). Fa parte del Forum Diseguaglianze e Diversità e del Direttivo dell’associazione “Riabitare l’Italia”.

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