La cultura di sinistra ha storicamente coltivato una solida fiducia nel futuro, convinta che il trascorrere del tempo fosse un fattore favorevole al conseguimento dei propri obiettivi. Se prendiamo, come riferimento ideale, il pensiero marxista-leninista relativo alla “fase più elevata del comunismo”, ne troviamo la conferma.
Lenin scrive che si può «parlare unicamente dell’inevitabile estinzione dello Stato, sottolineando la durata di questo processo […] lasciando assolutamente in sospeso la questione del momento in cui avverrà e delle forme concrete che questa estinzione assumerà». Prefigurando la sintesi finale tra la dittatura del proletariato, il pensiero socialista e quello anarchico, Lenin sostiene che «lo Stato potrà estinguersi completamente quando la società avrà realizzato il principio: “Da ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni”, cioè quando gli uomini si saranno talmente abituati a osservare le regole fondamentali della convivenza sociale e il lavoro sarà diventato talmente produttivo ch’essi lavoreranno volontariamente, secondo le loro capacità». Troviamo qui la fiducia non soltanto nell’inarrestabile marcia del proletariato, ma anche nell’incremento della produttività del lavoro, nella quantità dei prodotti che saranno disponibili per soddisfare i bisogni di tutti e nell’applicazione pienamente condivisa delle regole di convivenza sociale. Si tratta di affermazioni che vanno collocate storicamente, sottolineando però che, nel pensiero di sinistra, questa fiducia nel futuro e nell’espansione delle conquiste umane ha continuato a essere prevalente, mentre la consapevolezza del “mondo finito” (nel senso di delimitato) che cominciò a farsi strada dagli anni Settanta, è stata considerata con sospetto, se non del tutto rifiutata. Territori e mari da far fruttare, progresso scientifico e tecnico, insieme alla crescita delle produzioni e della disponibilità di beni, sembravano, ancora pochi anni fa, la garanzia per il raggiungimento generalizzato del bene comune.
La situazione odierna, profondamente mutata, appare tanto più paradossale e drammatica se consideriamo che effettivamente la scienza e le tecnologie di cui disponiamo, insieme alla maturazione dei sistemi di diritto democratici, potrebbero permettere all’umanità intera di convivere pacificamente, godendo di un benessere diffuso. Invece ci avviciniamo al punto di non ritorno: ogni giorno squillano intorno a noi campanelli d’allarme sempre più insistenti e minacciosi. L’ombra nera del capitalismo distruttivo si estende su tutto, aggredendo ambiente e risorse, diffondendo forme di sfruttamento estreme, condizionando le menti e le aspettative, riproponendo forme di governo autoritario e di controllo che si ritenevano superate. Il futuro stesso è a rischio. Siamo passati da prima o poi a prima o mai più. Questo radicale mutamento di prospettiva richiede la presa di distanza da ogni tipo di preconcetto e fede, a favore di un solido laicismo, che permetta di analizzare rapidamente i fatti, prendere decisioni, ottenere risultati, pur senza mai perdere di vista i principi fondanti dell’essere di sinistra. Molte volte, in passato, si sono adottate posizioni determinate semplicemente dalla presunta necessità di contrapporsi a quanto veniva affermato dai nostri avversari, senza nemmeno chiedersi se, con gli opportuni adattamenti, ne poteva sortire qualche buona idea.
Tra i problemi di enorme entità che abbiamo davanti, alcuni si presentano con elementi contraddittori (o quanto meno contrapposti) e perciò di difficile soluzione. Mi limito a qualche esempio, con la speranza di stimolare i necessari approfondimenti.
Quello dei limiti dello sviluppo è forse il tema più complesso, sul quale la Sinistra si è mossa con ritardo ed esitazione. Nel rapporto, commissionato dal Club di Roma e pubblicato nel 1972, si incominciò a mettere in relazione il tasso di crescita della popolazione con l’industrializzazione e lo sfruttamento delle risorse; la cosiddetta “bomba demografica” diventò un argomento di interesse generale, con le conseguenti riflessioni sui possibili interventi per il controllo delle nascite. Opponendosi, giustamente, a interventi coercitivi, la Sinistra europea sostenne che il rallentamento della crescita demografica sarebbe stato il risultato del raggiungimento generalizzato di livelli superiori di benessere, come in effetti è successo nei nostri Paesi ricchi. Non si tenne però conto del fatto che la diffusione del benessere materiale nei Paesi emergenti si traduce essenzialmente in un forte aumento dei consumi pro-capite: dunque la popolazione mondiale, cresciuta di tre volte rispetto agli anni Cinquanta del secolo scorso, consuma complessivamente dieci o forse venti volte di più. Nei Paesi di recente industrializzazione, la globalizzazione sfrenata non ha portato vero benessere, ma piuttosto l’adozione, improvvisa e acritica, dei modelli di consumo occidentali. Anche le religioni più diffuse (cristianesimo, islam, induismo), attraverso le loro strutture di potere temporale o le loro derivazioni settarie, hanno contrastato ogni forma di controllo delle nascite, sovrapponendosi a culture e tradizioni profondamente maschiliste, che assegnano alle donne, come compito principale, quello di procreare. Così oggi ci troviamo di fronte a una pressione demografica molto forte nei Paesi poveri, dove la popolazione continua a crescere, mentre avanzano la desertificazione e la rapina ambientale. Solo gli inguaribili ottimisti possono immaginare che sia gestibile in modo democratico un mondo popolato da una popolazione ancora in sensibile crescita, ma con risorse naturali sempre più limitate. Come si può reagire, da sinistra? Con una lotta senza quartiere per i diritti all’autodeterminazione da parte delle donne e per il diritto dei nuovi nati alla prospettiva di una vita degna di essere vissuta. Quindi lotta generalizzata ed enorme impegno per la salute e l’istruzione nei Paesi meno sviluppati, contro ogni pregiudizio religioso e maschilista, che considera una prova di virilità il mettere al mondo molti figli. E basta con gli allarmismi per “l’inverno demografico” nei Paesi ricchi, dove i giovani senza prospettive preferiscono non scommettere sull’allargamento delle proprie famiglie. Serve un femminismo internazionale e combattivo, concentrato sui problemi veri, anziché sulle quisquilie linguistiche, che trovano tanto spazio sui nostri media.
Le teorie della decrescita felice sono state, da gran parte della Sinistra, guardate con ostilità. Chi mostrava qualche tiepido interesse, finiva per ammettere che l’idea, quella sì, aveva qualche fondamento, ma la scelta del nome era del tutto inopportuna. «Come facciamo a dire agli operai e a tutti gli sfruttati che il modello di benessere a cui aspirano è un miraggio irrealistico? Come facciamo a dire che, con la decrescita, serviranno meno fabbriche e meno posti di lavoro?». Per come si stanno evolvendo le cose, oggi si incomincia a dire, con una battuta fin troppo facile, che quella che abbiamo di fronte è la prospettiva della decrescita infelice, del tutto subìta, anziché gestita per tempo. E chi pagherà questa decrescita? Non occorre grande immaginazione per prevedere che i ricchi sapranno difendere i propri privilegi, a scapito di masse sempre più ampie di esclusi. Chiamiamolo come vogliamo, ma il tema di un profondo mutamento dei modelli di consumo, dei valori condivisibili e dei criteri di convivenza tra di noi e con la natura, è ineludibile e urgente. È qualcosa che va ben oltre l’aggiornamento delle fabbriche di automobili, che invece dei motori a scoppio possono montare quelli elettrici. È qualcosa di molto più radicale del “green new deal”, proposto, per lo più, con insidiosa ipocrisia. Se la Sinistra non saprà fare propria una proposta convincente e un’idea rivoluzionaria del futuro possibile, sarà la sua decrescita a proseguire inarrestabile.
“Aiutiamoli a casa loro” è stata un’affermazione sostenuta dalle nostre destre in modo falso e strumentale, perché serviva semplicemente a giustificare il rifiuto all’ingresso di migranti nel nostro Paese. Ma se l’aiuto a casa loro, coordinato a livello europeo, iniziasse dal cessare la rapina infinita di risorse e il sostegno a regimi corrotti e dittatoriali, forse parleremmo di interventi concreti. Se partecipassimo a contrastare la desertificazione, dovuta al cambiamento climatico di cui sono responsabili i Paesi ricchi, forse eviteremmo di peggiorare ancora le condizioni di vita di intere popolazioni. Se dessimo vita a un “esercito della pace”, composto da giovani (e, perché no, da pensionati ancora in gamba), in grado di condividere sul campo programmi per la diffusione della cultura, della salute e delle applicazioni tecnologiche effettivamente utili, forse contribuiremmo ad abbattere muri di diffidenza e di razzismo. Per realizzare tutto ciò occorrono grandi risorse economiche, ma probabilmente meno di quelle che i nostri governi sono disposti a spendere per contrastare l’immigrazione, anche con azioni delittuose.
L’inefficienza del settore pubblico è un argomento che piace molto ai liberisti, soprattutto per sostenere che “privato è meglio”. Ma rendere l’amministrazione e i servizi pubblici efficienti, con un rapporto di reciproca fiducia tra cittadini e Stato, dovrebbe essere in cima agli obiettivi della Sinistra. Come si può, infatti, sostenere il primato nella gestione dell’economia e delle relazioni sociali, se non con un apparato pubblico di alto livello? Pur lasciando al privato la libertà di iniziativa, il settore pubblico dovrebbe essere in grado di orientare e controllare, con piena efficienza e imparzialità. Questo comporta anche la necessità di intervenire nei confronti di chi crede di aver trovato nell’impiego pubblico una posizione di comodo, incurante di doveri e finalità del proprio lavoro. Purtroppo, la Sinistra non è stata, molte volte, abbastanza chiara su questi argomenti. Un atteggiamento sindacale troppo accondiscendente ha finito per difendere anche fannulloni e scorretti, senza creare una netta distinzione con coloro (per fortuna numerosi) che svolgono al meglio il proprio compito. La presenza prevalente, nelle fila delle organizzazioni di sinistra, di dipendenti pubblici, che hanno preso il posto degli operai, ha dato luogo a posizioni sconfinanti in atteggiamenti corporativi.
Questi sono esempi tesi a sostenere che abbiamo bisogno di un grande impegno di pensiero, alla ricerca di elementi concreti per ridefinire le nostre linee guida, riconoscendone l’urgenza: è ora di tornare a parlare di rivoluzione. Nella prefazione all’edizione italiana del Rapporto sui dilemmi dell’umanità, Aurelio Peccei, cofondatore del Club di Roma, cinquant’anni fa scriveva, tra l’altro: «Non dobbiamo illuderci. Senza una forte ventata di opinione pubblica mondiale, […] la classe politica continuerà in ogni paese a restare in ritardo sui tempi, prigioniera del corto termine e d’interessi settoriali o locali, e le istituzioni politiche, già attualmente sclerotiche, inadeguate e ciò nonpertanto tendenti a perpetuarsi, finiranno per soccombere. Ciò renderà inevitabile il momento rivoluzionario come unica soluzione per la trasformazione della società umana, affinché essa riprenda un assetto di equilibrio interno ed esterno atto ad assicurarne la sopravvivenza in base alle nuove realtà che gli uomini stessi hanno creato nel loro mondo. […] Non solo potremo sperare di correggere il corso degli eventi per evitare il peggio che già si profila per un non lontano futuro, ma potremo forse gettare le basi di una nuova grande avventura dell’uomo, la prima a dimensioni planetarie, quali le sue conoscenze e i suoi mezzi tecnico-scientifici oggidì non solo permettono, ma ormai impongono».