Partecipando alla seconda edizione del Quasi Festival che si è tenuto a Roma il mese scorso, non si poteva non rimanere colpiti da quella che potrebbe sembrare, dati i tempi, persino una stranezza. All’ordine del giorno dei dibattiti c’erano questioni difficili e assai divisive, dal modo in cui si stanno affrontando le conseguenze della pandemia, al giudizio sul governo Draghi e sul PNRR e, da ultimo, agli atteggiamenti assunti di fronte alla tragedia della guerra in Ucraina. Proprio gli stessi temi, sui quali, in queste settimane, nel dibattito pubblico, si oscilla tra l’unanimismo plaudente a qualunque scelta del Governo, alla richiesta dello schieramento senza se e senza ma sulle scelte di riarmo e di guerra, fino all’anatema verso qualunque posizione diversa, considerata esempio di “intelligenza con il nemico”. E in questo stesso dibattito pubblico sembrano scomparse, o comunque ridotte alla marginalità, le posizioni, che un tempo avremmo chiamato di sinistra.
Invece, nel Quasi Festival sono emerse voci diverse, che faticosamente, cercano di farsi strada cercando di perforare il muro della comunicazione mainstream. Da padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica, che ha parlato della necessità di “ricominciare”, di costruire un nuovo inizio e non semplicemente di ripartire nel tentativo di ricostruire gli equilibri, messi in discussione dalla pandemia, che invece devono essere cambiati; a Rosy Bondi che, riflettendo sul lutto che collettivamente abbiamo vissuto, ha richiamato alla responsabilità di rimuovere le cause e di combattere le conseguenze sociali e ambientali della pandemia e della guerra, abbandonando ogni nostalgia della “normalità di prima” e accettando la sfida del cambio di paradigma alla base delle nostre scelte collettive. E sulla stessa lunghezza d’onda si sono ritrovati e si stanno ritrovando in tante e tanti, diverse e diversi, militanti e intellettuali, diversi per formazione, provenienza, militanza e collocazione professionale.
Nello spartiacque determinato dalla pandemia e dalle sue conseguenze, di fronte alla evidente incapacità delle logiche di mercato di fronteggiare gli eventi, si è riaperta, anche al di fuori della sinistra radicale, una discussione sulle scelte che sono state compiute in questi trenta anni e sulla necessità di costruire qualcosa di nuovo. Di fronte all’isteria bellicista e riarmista, in molte e molti cominciano a denunciare l’inutilità della guerra, portatrice solo di distruzioni e lutti e incapace di risolvere alcun problema.
Il modo in cui si vuole uscire dalla pandemia e la maniera in cui ci si propone di affrontare la guerra in Ucraina, come tutti gli altri conflitti che vengono combattuti nel mondo rappresentano ormai una nuova frontiera, stanno ridislocando le persone e i movimenti. Riprendono forza e credibilità le scelte di quanti pensano che non si possa semplicemente abituarsi al probabile, come tanta sinistra ha fatto in questi anni, e trovare il coraggio di immaginare il possibile, di uscire dalla sindrome dell’adeguamento all’unico mondo possibile, per porsi il problema di costruire una alternativa.
Fare i conti con le lezioni che gli anni della pandemia e l’esperienza della guerra in Europa significa, ancora secondo Rosy Bindi, non accettare che queste idee vengano considerate strani e bislacchi pensieri di minoranze, ma il terreno della costruzione di un’area, non più di centrosinistra, disposta a misurarsi soltanto con la possibilità di moderare le idee altrui, ma un’area di sinistra plurale, radicale e riformista a un tempo.
Culture diverse, approcci diversi, credenti, femministe, militanti di sinistra, docenti e ricercatori, animatori e animatrici di associazioni e movimenti stanno faticosamente riprendendo la parola cercando una lettura delle cose che ci stanno accadendo, tentando di trovare il filo che consenta di leggere la complessità e la drammaticità del nostro mondo. Su queste pagine (https://volerelaluna.it/che-fare/2022/04/29/la-guerra-e-uno-spartiacque-dobbiamo-fare-qualcosa-di-nuovo/) Massimo Torelli ha chiesto che si faccia una verifica di questa possibilità, della possibilità di un incontro largo e grande. Penso che abbia ragione e che valga la pena di provarci.
E’ un bene che per la prima volta da tanto tempo nel campo della sinistra radicale si parli di riformismo, un termine che negli ultimi 30 anni in questo campo è stato più o meno sinonimo di alto tradimento. Tuttavia sembra davvero difficile parlare di riformismo senza parlare di sviluppo. Persino in quella che è stata la teoria riformista più radicale, quella ingraiana, lo sviluppo, compariva sin dal suo titolo “modello di sviluppo alternativo”. Viviamo peraltro in un’epoca attraversata da quella stagnazione secolare che inclina ora in fase recessiva, e dunque parlare di un riformismo coniugato allo sviluppo, significa conseguentemente farsi carico del problema.
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