Come uscire dall’irrilevanza politica? Il populismo può essere una risorsa

image_pdfimage_print

In questi anni abbiamo maturato una proficua riflessione sulla trasformazione delle forme dell’organizzazione politica nella fase di egemonia del neoliberismo. Se il neoliberismo costruisce solitudine, precarietà, un peggioramento delle condizioni materiali assieme alla decostruzione dei nessi comunitari, l’organizzazione politica non può che ripartire dalla ricostruzione di nessi sociali primari. Il mutualismo, l’erogazione di servizi o la riappropriazione popolare di prodotto sociale sono forme ineludibili di ricostruzione comunitaria, riconessione di nessi solidali che dovrebbero rappresentare il tessuto connettivo delle future organizzazioni politiche popolari. II problema, però, è che a questa ricchezza di esperienze sociali non ha corrisposto una forza politica. Anzi, il punto di vista del lavoro, della pace e della giustizia climatica non è mai stato così debole nella politica italiana. Lo schema che ritenevamo tendenzialmente più efficace era quello dell’accumulazione sociale come premessa automatica della rilevanza politica. Di più, l’intrinseca politicizzazione dei nessi mutualistici e sociali, sarebbe stata destinata, quasi meccanicamente, a produrre potenza politica, in una relazione meccanicistica tra accumulazione sociale e rilevanza politica. Purtroppo, sappiamo che non è stato così. Quelle comunità faticosamente ricostruite rischiano di divenire impolitiche se non ci si pone il tema di come prendere, utilizzare e cambiare il potere nelle sue forme attuali, di come rappresentare istituzionalmente l’alternativa. Dall’altra parte, una forza politica senza una comunità politica rischia di essere incapace di organizzare un pensiero, una militanza, un impegno duraturo necessario per le sfide enormi che la nostra ambizione politica si pone. Se la dimensione comunitaria e la rilevanza politica risultano reciprocamente necessarie bisogna conciliare, in qualche modo, i tempi diversi che necessitano le due operazioni. L’unica cosa che non si può fare è affidarsi all’esoterismo e alla magia, privilegiando l’attesa messianica di una proposta politica salvifica che dovrebbe magicamente arrivare da qualche fonte esterna. Come conciliare rilevanza politica e comunità politica? Esiste, ora, lo spazio politico per una proposta rilevante?

Le nostre post-democrazie sono tigri di carta. Nell’esercizio politico e ideologico del pensiero unico, che nel caso italiano si declina con il leader “migliore” sostenuto dall’intero arco parlamentare, che applica le ricette “migliori” perché tecniche, la promessa democratica rimane costantemente tradita alimentando un’endemica sfiducia verso la democrazia e i suoi attori. Ardite geometrie parlamentari vengono imbastite per negare il buon senso comune, per ostacolare domande popolari che vorrebbero salari giusti, un maggiore intervento pubblico, la pace e la lotta al cambio climatico. Di fatto, nel contesto italiano, le proposte politiche al governo in questi anni hanno rappresentato un costante tentativo di superamento della rappresentanza classica. Il sistema politico italiano funziona come un pendolo che oscilla tra forme tecnocratiche, in cui il popolo viene ritenuto troppo ignorante e stupido per gestire la complessità della cosa pubblica, e forme di populismo, in cui una leadership carismatica promette la riconsegna della sovranità perduta al popolo. Il sistema politico composto da corpi intermedi radicati e legittimati, reciprocamente legati da un rapporto di competizione e di reciproco riconoscimento pluralistico, ormai non esiste più. Il campo politico è fatto di spoliticizzazione, leaderismo e polarizzazione. Certo, non è quello che vorremmo e che ci piacerebbe, ma il campo della politica è quello che è e non si possono confondere gli obiettivi con i presupposti.

Collocato a uno dei due poli di questo pendolo, il populismo, a differenza della tecnocrazia, affronta teoricamente un punto cruciale, facendosi megafono della necessità che la sovranità popolare non venga sacrificata sull’altare di nessuna causa superiore, favorendo e rafforzando la denuncia delle attuali post-democrazie come forma di regimi antisociali, in cui si può votare periodicamente chi si vuole a patto che vinca sempre lo stesso programma. Certo, non ci sfugge che nella sua declinazione concreta il populismo possa essere strumentale, utilizzato per negare la piena cittadinanza, sovrapporsi alla demagogia e al nazionalismo, favorire una svolta autoritaria. Purtroppo i crinali della storia sono sempre radicalmente ambivalenti ma non possiamo riavvolgere la storia. La realtà sono destre radicali e sinistre neoliberiste che preservano un potere sociale oligarchico, strutturalmente antidemocratico e incapace di rispettare perfino le promesse liberali. Proprio per questo riteniamo che, nonostante le sue pericolose contraddizioni, il populismo ci permetta di segnalare efficacemente e comprensibilmente il sequestro della sovranità democratica e popolare da parte di élite sempre più potenti, che concentrano risorse materiali e simboliche dominando il sistema politico. All’interno di questa periodica oscillazione della politica italiana si apre lo spazio della riconquista di una rilevanza politica e istituzionale funzionale, inoltre, a rafforzare un percorso di costruzione della comunità politica. Il Governo Draghi sembra stia scavando un solco profondo tra se stesso e il senso comune, favorendo l’oscillazione verso il polo populista. Si sta aprendo una fase populista? Nel senso comune collettivo non c’è nulla di progressista su cui fare leva?

La guerra cambia tutto, si configura come un’orrenda e tragica perdita di tempo quando l’umanità dovrebbe affrontare la sfida enorme del cambiamento climatico e della diseguaglianza sociale. Senza una transizione economica e sociale radicale l’umanità rischia l’estinzione, che qualcuno vuole accelerare con uno scontro nucleare di civiltà. Le sanzioni alla Russia e l’allungamento della guerra a data da definirsi a Washington rischiano di trascinarci in una crisi economica e sociale gravissima e pericolosa. Milioni di lavoratori e lavoratrici rischiano di peggiorare ulteriormente la loro condizione, alimentando un blocco sociale della rabbia e della sofferenza che può sostenere proposte tanto radicali quanto ideologicamente diverse.

Come ci insegna la Francia, la partita non è chiusa per la sinistra. Ma serve costruire un partito della pace e del lavoro, che parli alla maggioranza sociale che non vuole la guerra, che vuole combattere la catastrofe climatica e costruire un sistema economico basato sul protagonismo statale, sui diritti del lavoro e sull’innovazione. Tutto questo, ripeto, non è solo necessario ma diviene politicamente possibile. Il pendolo della politica italiana torna verso il polo populista. Mentre la società vuole la pace, la politica fa la guerra, mentre la società vuole lavoro la politica diffonde precarietà, mentre la società vuole uno stato forte che si prenda cura dei cittadini e delle cittadine la politica privatizza. Sta a noi trasformare le prossime elezioni in un referendum tra la pace e la terza guerra mondiale, tra la transizione climatica e la catastrofe ambientale, tra il lavoro con diritti e precarietà senza lavoro.

Per cambiare, però, serve cambiarsi. Il populismo di sinistra, intanto, vuol dire volontà di governo, che non c’entra nulla con il governismo inteso come malattia senile del minoritarismo. Volontà di governo vuol dire porsi l’obiettivo ambizioso di diventare il principale partito dell’area progressista italiana, di diventare egemonici ponendosi, sempre, il problema del senso comune, delle sue contraddizioni e delle sue fratture. Non importa quanto ci vorrà ma non esiste politica senza l’ambizione del governo, delle sue complessità e contraddizioni. Essere populisti nella contingenza attuale vuol dire lavorare politicamente nella consapevolezza che la linea divisoria della politica attuale è l’appoggio alle nuove imprese belliche del fronte atlantista: da una parte chi vuole la terza guerra mondiale e dall’altra chi vuole la cooperazione internazionale. Non ci prepariamo semplicemente a rappresentare minoranze idealiste ma possiamo lavorare per la costruzione di un programma realisticamente rivoluzionario, con proposte di breve, medio e lungo periodo capaci di contendere l’egemonia al campo avversario rappresentando quelle domande maggioritarie negate dalla politica. Serve una conferenza di pace europea che disinneschi le tensioni dell’Europa Orientale, serve ridare centralità e potere al lavoro e uno stato che programmi la transizione ambientale. Attenzione, però, a pensare che basti una convincente lista della spesa. Serve il racconto negato di una riscossa democratica e popolare basata sul rispetto della volontà popolare, di quella maggioranza silenziosa che manda avanti questo paese. Ritorniamo così all’inizio. La breccia populista ci potrebbe permettere di costruire la rilevanza politica che ci manca, alimentando uno spazio politico all’interno del quale costruire e rafforzare comunità politica per una battaglia lunga e necessaria. La posta in palio è l’umanità.

L’articolo riproduce, con alcuni approfondimenti, l’intervento svolto il 10 aprile a Roma nell’incontro dedicato a Come si costruisce un’alternativa nell’ambito del “Quasi festival. La lezione del 2020”.

Gli autori

Francesco Campolongo

Francesco Campolongo, ricercatore di Scienza Politica all'Unical sui temi della transizione energetica, dei populismi e della democrazia. Autore di "Podemos e il populismo di sinistra" (Meltemi, 2021)

Guarda gli altri post di: