1.
A settembre dell’anno scorso, Livio Pepino ha proposto di aprire una discussione approfondita su compiti e prospettive di un’associazione come la nostra, nata per rilanciare la partecipazione dal basso e combattere le diseguaglianze (https://volerelaluna.it/che-fare/2021/09/22/volere-la-luna-che-fare-un-confronto-aperto/). Il confronto apparentemente non si è sviluppato in maniera esplosiva: in circa quattro mesi, dieci interventi. Forse è un segnale che riflettere sulle strade che dovremmo intraprendere – e sulla visione del mondo e di come cambiarlo che esse richiedono – non è facile, in tempi come questi. Ma la strada va scelta, pena l’irrilevanza. Per provare a contribuire parto dagli spunti che ho colto nei contributi finora pubblicati, riferendomi in particolare a tre di questi, più vicini alla mia cultura alle mie pratiche. Tre interventi che dicono molte cose concordanti, ma parlano anche linguaggi differenti, non sempre comunicanti, che derivano da esperienze diverse, e dalla difficoltà che queste hanno, e hanno avuto, a parlarsi.
Vediamo prima le concordanze. Tutti e tre gli interventi mettono l’accento sulla necessità di partire dal basso, dalla società reale con le sue contraddizioni e le sue domande, per costruire una critica all’esistente e una mobilitazione che si ponga l’obiettivo del suo cambiamento nella direzione di una società più giusta. Tutti e tre concordano che lo strumento per costruire questa alternativa è partire da un radicamento sui territori (e questo è segno che stiamo parlando fra gente che ha un terreno comune, e che sta intraprendendo una strada condivisa). Detto questo, veniamo alle diverse sensibilità e prospettive.
2.
A) L’intervento di Riccardo Barbero (https://volerelaluna.it/che-fare/2021/10/11/stare-nei-territori-ma-anche-ridefinire-un-progetto/), quello con cui mi sento in più forte sintonia, è un intervento che utilizza un approccio direi “politico” nel senso della tradizione di analisi delle contraddizioni a cui la politica dovrebbe rispondere e degli strumenti di cui dovrebbe dotarsi. La domanda è: perché in presenza di un vasto arco di movimenti e di realtà che all’ordine presente delle cose si oppongono, non riusciamo a costruire un progetto alternativo (e a farlo marciare nel concreto?). In realtà – dice – i programmi ci sono, ma anche se diciamo che un altro mondo è possibile, poi non riusciamo a dire chiaramente quale dovrebbe essere. La risposta che dà è netta. C’è un macigno che pesa sulle forze collettive e sui singoli individui che lottano per un mondo diverso: il silenzio della politica a sinistra, dopo la fine del socialismo reale, che un mondo diverso lo aveva proposto ma poi non lo ha realizzato; ed è un silenzio che ha significato mancanza di comunicazione fra generazioni, saltandone al meno un paio. Dice Riccardo: «Trent’anni di silenzio pesano come macigni oggi sulle nuove generazioni che manifestano e lottano contro il capitalismo, come se non ci fosse una storia alle loro spalle. […] Per quelli di noi che sono ormai vecchi diventa urgente e indifferibile promuovere con i giovani un confronto aperto sul tema del socialismo. […] Il nostro silenzio verso i giovani non ci è stato imposto da nessuno, se non da un’inerzia che dobbiamo superare». Dietro questo richiamo c’è l’esigenza di dire a chi sta nelle lotte e nei movimenti qual è la prospettiva politica, qual è mondo che vorremmo costruire, con quali strumenti. Compare in questo contributo un esplicito riferimento al socialismo, e indirettamente (ma faccio riferimento anche ad altri interventi di Riccardo) il problema della necessità di una forza politica organizzata (un partito, parola strana e inquietante, per molti di noi; inquietudine emersa anche in qualche intervento). Anche sul riferimento al socialismo non è tutto scontato, anche al nostro interno: Guido Viale (https://volerelaluna.it/che-fare/2022/01/05/note-per-un-cambio-di-rotta/) afferma che il termine potrebbe essere “divisivo” perché può evocare esperienze passate finite male: ma non sarebbe allora il caso di ricominciare a parlarne esplicitamente (vedi più sotto l’intervento di Mazzone), per discutere se tutta l’esperienza che ci sta alle spalle è da buttare, o se possiamo criticamente riprendere l’idea di un mondo non basato (esclusivamente) sul profitto e sul privato, sociale o no? (Si potrebbe osservare che, forse non a caso, la parola fa meno paura ai giovani USA che qui da noi in Europa…).
B) Il secondo contributo (https://volerelaluna.it/che-fare/2021/11/25/il-mutualismo-politico-come-promessa-e-strategia-di-emancipazione/) è quello di Leonard Mazzone, di Comunet, associazione con cui Volere la Luna ha stabilito un rapporto stretto e proficuo (e a cui personalmente aderisco, dividendo il mio modesto e limitato impegno fra le due appartenenze). È incentrato sull’esperienza mutualistica che sta alla base e al cuore della sua pratica, mirata a costruire forme di organizzazione dei rapporti sociali ed economici che lavorino nella prospettiva di un «ecosocialismo femminista e democratico». Al centro c’è un’attenzione molto maggiore alla soggettività: nel rapporti interpersonali nel fare politica, nelle modalità di azione e di costruzione della strategia, nella coerenza fra le proposte e le gambe con cui farle marciare: «attenzione ai linguaggi che usiamo per nominare il mondo che vogliamo trasformare. […] Conta non soltanto il contenuto dell’alternativa proposta ma anche e soprattutto la credibilità di chi la propone […], il mutualismo può far valere un’autorevolezza che consente a certe parole di tornare ad assumere il peso e il valore che hanno progressivamente smarrito». Il linguaggio e l’approccio possono sembrare lontani da quelli del contributo precedente; indicano la preoccupazione, in una generazione che prova a coniugare “buone prassi” e voglia di fare politica oggi, di costruirsi degli strumenti pratici che non ricadano nelle trappole di una politica che ha creato attorno a loro un vuoto di credibilità e che considerano inutile e dannosa. Significativamente, c’è un richiamo al “lavoro teorico”: ma qui è inteso come teoria dell’agire politico, per costruire una proposta di nuova militanza che rompa con l’attivismo legato alle cadenze istituzionali e con le relative frustrazioni (problema rilevante e sentito dalla sua generazione). Lo strumento del radicamento è il mutualismo politico, che rompe l’asimmetria di chi dà e di chi riceve per innescare la reciprocità mutualistica, ed è politico in quanto combatte la separazione fra lavoro “sociale” e “politico” rifiutando la sussidiarietà e rivendicando dalle istituzioni che quello che oggi è presentato come un servizio debba essere considerato un diritto. Le singole esperienze dovrebbero poi confrontarsi e contribuire a costruire «una rete strutturata fra soggetti radicati mutualisticamente nei territori». In sostanza, mi pare, un tentativo di costruire un metodo di lavoro politico, senza voler prefigurare gli approdi futuri, in una fase che lascia effettivamente poco spazio a un’immaginazione positiva… Sulla “metodologia mutualistica” credo si potrebbe approfondire la discussione e lo studio: il passaggio dall’asimmetria dell’intervento sui bisogni alla reciprocità, al coinvolgimento di nuovi soggetti nella mobilitazione e nella lotta organizzata non è né banale né facile, come abbiamo visto nelle esperienze sul campo di questi ultimi due anni, ma è il nodo.
C) Il terzo intervento è quello di Alessandra Algostino (https://volerelaluna.it/che-fare/2021/12/16/ricostruire-il-conflitto-attorno-alleguaglianza/), che mette l’accento sul ruolo che i movimenti possono avere per costruire un’alternativa al sistema neoliberista; mi pare che il giudizio sia che la loro esistenza sia già fonte di «consapevolezza, il terreno necessario per la costruzione di una democrazia solida ed effettiva, che non può che essere plurale, conflittuale e strutturalmente contraria, nella sua tensione all’eguaglianza e all’emancipazione, alla diseguaglianza e alla sopraffazione insite nel neoliberismo». Questa convinzione che nei movimenti ci siano le condizioni per una crescita di coscienza politica è accompagnata, nello scritto di Alessandra Algostino, dal richiamo alla necessità del riferimento al piano istituzionale: «Insistere su un radicamento sociale, dal basso, non significa sottovalutare l’importanza di un’azione sul terreno politico-rappresentativo e istituzionale: l’uno non esclude l’altra, anzi, si sostengono a vicenda; e nel circolo virtuoso si inserisce il costituzionalismo». È un approccio che si basa sull’esperienza della compagna, che unisce la militanza nei movimenti al rigore della studiosa di sistemi costituzionali e del loro ruolo di promozione della democrazia: in questa visione, in cui, se ho ben capito, i movimenti sarebbero in grado di incidere sul piano istituzionale (anche su quello della rappresentanza), resta aperta la questione della necessità (o inutilità, se non peggio) di forme di organizzazione politica di tipo partitico, in vecchia o nuova veste.
3.
Poche considerazioni mie, per concludere con qualche interrogativo.
Se all’inizio ha elencato le concordanze, qui vorrei mettere in luce le differenze, sia di linguaggio che di prospettiva, con l’intenzione di dare un piccolo contributo ad approfondire la discussione.
Sicuramente tutti siamo coscienti che costruire reti è il primo passo per creare una forza che abbia un impatto sociale di qualche rilevanza, e che coinvolga strati altrettanto rilevanti di cittadini e lavoratori che oggi non hanno strumenti per opporsi alla crescita delle diseguaglianze e alla espropriazione del diritto di incidere sulle scelte locali e globali; ma come costruirle non è affare banale; sembra strano, ma non è facile uscire dai particolarismi, dalle piccole autoreferenzialità, dal privilegiare il proprio obiettivo e/o punto di vista. Qui l’approccio metodologico di Leo Mazzone e di Comunet è uno strumento da prendere sul serio. Ci stiamo provando con l’abbozzo di una rete di organizzazioni che a Torino agiscono sul diritto all’abitare: è un inizio, e quello che riusciremo a fare sarà un buon test.
Nel momento in cui critichiamo l’approccio istituzionale, di rappresentanza formale, della politica tradizionale, ormai ridotto a un deserto di fantasmi, non possiamo non essere coscienti del fatto che un cambiamento radicale nello stato di cose debba coinvolgere, prima o dopo, il piano delle istituzioni: le modificazioni dei rapporti di forza devono essere costruite nell’agire sociale, ma devono trovare sanzione e stabilizzazione a livello di governo della società (locale, nazionale, oggi ancora di più sovranazionale). In questo ambito, se si vuole costruire un ponte tra il lavoro sociale e la battaglia per la democrazia occorre abbandonare l’assunto semplicistico che basti dare una lista votabile a tutti coloro che si astengono perché non hanno più fiducia nei partiti attuali. I lavoratori, i ceti popolari non hanno prioritariamente bisogno di liste da votare, ma di istituzioni che siano in qualche misura sensibili agli obiettivi delle loro lotte e dei loro movimenti. Questo vuol dire cominciare ad affrontare il nodo-istituzioni dal livello più vicino alla gente, quello comunale: ma non ci possiamo nascondere che proprio qui sono stati gettati i semi peggiori del maggioritarismo, con lo strapotere di sindaco e giunta e il sostanziale esautoramento del ruolo del Consiglio e delle possibilità dell’opposizione di incidere sulle scelte.
Ma allora il lavoro teorico non può essere solo sul metodo (per quanto importante), ma anche e soprattutto sul modello di società che vogliamo costruire e sul modello di organizzazione politica che deve guidare il cammino verso di essa. E qui c’è molto da discutere, da studiare, su cui confrontarci. Due esempi, presi dagli interventi citati: pensiamo che il nemico sia il capitalismo in sé o la sua versione neoliberale- finanzcapitalista (“degenerata”, come la ha definita qualcuno)? Non è questione banale, che può avere risposte diverse (tra cui quella: non è il caso di dividerci su questo, l’importante è costruire alleanze con tutti quelli che vogliono combattere lo strapotere neoliberale, poi si vedrà; oppure quella: se non si va a fondo, si rischia di tentare di ripercorrere la strada della socialdemocrazia storica, che anche negli esempi migliori ha dimostrato limiti e fallimenti). Comunque è, secondo me, necessario affrontare il nodo, e forse la “bussola socialista” di E.O. Wright, il cui approccio pragmatico che ha cercato di far coesistere le differenti opzioni strategiche della storia del movimento operaio che da sole non hanno funzionato (prendere lo stato e abbattere il capitalismo, contenere l’azione distruttiva del capitalismo, costruire spazi sociali liberi dal capitalismo) può essere uno strumento duttile e utile. Altro esempio: nessuno oggi ha molta voglia di parlare di partiti, viste le deprimenti esperienze degli ultimi decenni, ma possiamo fare a meno di forme politiche organizzate? Il ponte fra movimenti e istituzioni (nei due sensi, non solo dal basso verso l’alto) chi lo fa? E la bussola chi ce l’ha? Non certo solo un (il) partito, ma neanche una rete di movimenti. Una volta si sarebbe detto che il processo lo si costruisce in un rapporto dialettico fra strutture politiche, strutture sociali e tutti i soggetti che si uniscono e si organizzano per modificare i rapporti di potere.
Allora, forse dobbiamo prendere sul serio le ultime parole del contributo di Riccardo: parlarci, studiare insieme, fra generazioni che non si sono mai confrontate, fare formazione: una formazione mutuale, mi si perdoni l’uso del termine, in cui ciascuno porta elementi di conoscenza, di critica, di esperienza. Nessuno ha niente da trasmettere se non sa che deve anche apprendere. Qualcosa si è fatto in questa direzione, ma credo si debba fare molto di più – e andare più a fondo.
Sono considerazioni importanti! Secondo me la questione si può porre, estraniandosi solo per un momento dal problema specifico, in questi termini: di fronte ad un problema mettersi in condizione di operare una scelta pragmatica che vuol dire che dalle azioni che conseguiranno si potrà presumere risultino i migliori risultati.
È evidente che per raggiungere questo obiettivo è necessario l’osservazione il più disincantata possibile delle scelte operate nel passato; cioè definito il buon obiettivo da raggiungere, solo per le attività del passato di cui si conosce il risultato si può esprimere se la scelta fu foriera di bene o di male? Mi domando; perché i costituzionalisti discussero tanto fra “Repubblica fondata sul Lavoro o sui Lavoratori”? Non è l’origine della spaccatura in due fronti: chi presume di dare Lavoro e chi lo esegue?
Tutti piangiamo perché i Partiti non riescono ad esprimere personalità politiche di rilievo da cui possa conseguire un PARLAMENTO capace, un GOVERNO che gestisca la SOCIETA’ nel modo più giusto. Ma mi domando in che cosa si somigliano tutti i partiti che li rende incapaci tutti di assolvere il proprio compito? Siamo proprio convinti che tutto derivi dalla cultura diffusa? Le logiche delle strutture gestionali e di sviluppo foriero di aumento delle proprie dimensioni in che cosa si assomigliano e si differenziano? Siamo sicuri che la situazione esistente non partecipi pesantemente al risultato? Non è forse vero che troppo spesso i politici di oggi sono arrivati ai partiti non più come una volta scegliendo un’idea ma un interesse di parte? C’è qualcuno che si fatto carico di studiare questa problematica? Qualcuno ha pensato a rendere le strutture le gestioni dei partite completamente disgiunte dall’ideologie per non influenzarle? non è questa la radice dei conflitti d’interesse? Patto sociale o diffusione del Conflitto d’interesse?