Che fare? si chiede Volere la Luna (https://volerelaluna.it/che-fare/2021/09/22/volere-la-luna-che-fare-un-confronto-aperto/). Rispondo prendendola da lontano.
1.
Nelle ultime elezioni amministrative la propensione all’astensionismo di parti rilevanti dell’elettorato già registrata al primo turno ha raggiunto, soprattutto nelle città, percentuali mai viste, in modo trasversale ma assumendo, tranne poche eccezioni, valori estremi nelle periferie, nei margini, nelle aree di popolazione segnate da maggiore difficoltà. Quelle dove spesso le vulnerabilità e l’estrema precarietà di vita e di futuro provocate dalle disuguaglianze economiche, sociali e culturali, vengono appesantite e rese insopportabili da un’ulteriore e quasi mai denunciata disuguaglianza: quella di riconoscimento. Cioè dalla sensazione che lo star male, l’ansia di arrivare a fine mese – trasformata dagli effetti della pandemia per molte famiglie in ansia di arrivare a fine giornata – e la precarietà non soltanto non sono trattate dai centri e dalla politica ma non vengono neanche viste e riconosciute, provocando così rabbia e sensazione di ingiustizia, che poi si esprimono anche in un consapevole e rassegnato abbandono dei propri diritti e doveri di cittadinanza, primi fra tutti il voto.
Tutto questo richiama all’esigenza di rispondere a una vera e propria urgenza democratica perché quando oltre il 50% degli elettori e delle elettrici sta a casa, ogni democratico, al di là del risultato della sua forza politica, dovrebbe interrogarsi sullo stato di salute della democrazia. E quando a votare ci vanno soprattutto i centri e i garantiti, mentre chi sta ai margini o fa più fatica rimane a casa, allora la cosa è anche peggiore. Certo, qualcuno a sinistra prova a dire che tutto questo è stato alla fine un bene perché con percentuali di voto più alte l’esito sarebbe stato rovesciato: «meno male che le periferie sono state a casa», ho sentito dire con incomprensibile sollievo da più parti. Ma trovo questa affermazione triste e poco lungimirante. Da una parte perché porta con sé una sorta di resa all’evidente incapacità della sinistra di parlare con le persone più in difficoltà, con quei ceti e parti di società che una volta rappresentava e che trovavano proprio nella sinistra speranza di emancipazione e luogo di impegno e spesso di militanza. Da un’altra parte perché sulla concretezza e durata del crollo dei sovranisti, che pure c’è stato e a volte in modo evidente, non sarei così ottimista in quanto semplicemente quella parte di società non è andata a votare e basta. Non ha ritenuto di votare a destra (molto probabilmente delusa da una campagna elettorale sbagliata di Salvini e Meloni) e neanche di votare il Movimento 5Stelle, passato dall’essere campione dell’antipalazzo allo stare nel palazzo digerendo ben tre diversi governi e coalizioni. Ma sicuramente non ha cambiato orientamento e posizionamento
2.
Ciò detto, se quelle che hanno vinto sono le posizioni di politici mascherati da tecnici spesso interessati a ristabilire la supremazia della modalità liberista, occorre capire come si può ricostruire un ambito politico che si ponga la finalità di determinare un’alternativa a tali processi. Sia dal punto di vista dei contenuti, sia da quello della ricerca di nuove forme di costruzione di alleanze politiche in grado di impattare anche sul dato elettorale.
Sul primo punto alcune direzioni possono essere la costruzione di politiche e proposte tese a restituire potere al lavoro; a orientare in senso democratico l’innovazione tecnologica; a indirizzare la transizione ecologica in una connessione stretta tra giustizia sociale e giustizia ambientale per non lasciarla nel pericoloso rischio di svuotamento provocato dal mantra abusato e mal interpretato dello sviluppo sostenibile. E ancora la richiesta di politiche pubbliche capaci di rilanciare un welfare e un sistema sanitario pubblici e universali, con al centro le persone e i loro diritti, basati su un’idea di cura riportata all’interno delle comunità come bene comune e sostenuti da una riforma fiscale capace di riequilibrare le dissonanze attuali e di recuperare l’evasione come prima e unica chiave di argine e contrasto dei meccanismi di privatizzazione fondati sulla messa a profitto della sofferenza. Molti di questi temi, non a caso, sono stati alla base di liste civiche ecologiste, di sinistra e femministe che hanno ottenuto buoni risultati. Si tratta di temi che ogni giorno vengono messi in pratica da una miriade di soggettività differenti, di diverse culture e operative in diversi ambiti, pubblici e privati, che in Italia compongono un’intelligenza civile diffusa, che dimostrano che “si può fare perché già si sta facendo”, che hanno saperi forti e lungimiranti perché centrati testa, pancia e piedi nella realtà. Sono però soggettività che spesso non trovano luoghi di reciproco riconoscimento per fare sintesi, per cogliere connessioni, per trasformare le pratiche locali e le sperimentazioni innovative in sistemi capaci di orientare e indirizzare le politiche sia a livello locale che nazionale.
Credo che, per provare ad arginare le derive da cui sono partito, l’unica strada possibile sia quella di investire per favorire cuciture e alleanze tra questi diversi mondi, di creare luoghi di reciproca contaminazione dove si abbia l’intelligenza non solo di partire da quello che unisce ma anche di mettere al centro del confronto i punti di frizione. Consapevoli che solo facendo i conti con tale complessità si possono ritrovare analisi, linguaggi e pratiche in grado di entrare e rammendare i vuoti lasciati dall’impatto delle povertà diffuse e dalle disuguaglianze provocate dalle contaminazioni delle idee liberiste. Sapendo che occorre provare a cambiare il senso comune perché esso è stato trasformato in negativo, in un processo che si è declinato nella convinzione che alla fine la povertà dipende dal mancato impegno. Che il problema non sia contrastare la povertà ma come trattare i poveri. Poveri che, appunto, sono colpevoli della loro condizione (in uno smarrimento che anche a sinistra ha comportato la perdita della convinzione che la povertà non è mai una condizione volontaria). Che le disuguaglianze sono normali in quanto prezzo inevitabile da pagare allo sviluppo. Che il pubblico è sempre peggio del privato (un sentimento che si era rovesciato con il primo devastante impatto della pandemia dove le persone hanno visto con chiarezza i danni, non solo sociali e sanitari ma anche economici, provocati dallo smantellamento della sistema sanitario nazionale ma che già oggi segnala un indebolimento). Che l’arricchimento è il metro primo del merito.
In tale deriva culturale si è, nel tempo, sgretolata la cultura dei servizi attraverso due diversi processi. Il primo ha portato l’idea di cura fuori dalle comunità: da un lato, riducendola al solo contenimento e all’istituzionalizzazione delle persone (spesso mettendo in produzione la sofferenza) e, dall’altro scaricandola sulle famiglie e quindi, dato il carattere tuttora fortemente patriarcale della nostra società, sulle donne. Il secondo processo ha riguardato le persone fragili o complicate, che sono state private della loro umanità, ridotte, nell’immaginario pubblico, a categorie narrate quasi sempre in negativo o con toni preoccupanti. E quando le persone vengono private di nomi propri, corpi, biografie diventano oggetti più esposti all’indifferenza, all’abbandono, alla cattiveria.
3.
Per queste ragioni trovo interessanti le prospettive a cui guardare nel fare politica proposte da Volere la luna: «Contrastare le diseguaglianze, promuovere ma soprattutto praticare forme di partecipazione solidale, favorire la rinascita di un pensiero libero e critico». Così come, in modo coerente con tale direzione, condivido la necessità di «cambiare radicalmente il proprio modo di essere, di pensare, agire, cooperare e aggregarsi, tenendo fermi i valori di riferimento di un solidarismo radicale. Il mondo è cambiato, è ora di cambiare noi stessi». Tali indicazioni mi paiono delle segnaletiche di buon cammino utilizzabili trasversalmente a tutti i diversi luoghi e alla differenti modalità con cui si esprime oggi, più o meno consapevolmente, il fare politica, caratterizzato, oltre che dai contenuti, dalla finalità di fondo di ridurre la distanza che si è creata tra il sentire comune e l’ambito della politica.
Per fare un esempio, se guardo al tema del lavoro sociale penso che nelle esperienze di innovazione diffuse nel Paese spesso si trovano i prototipi, le sperimentazioni di un nuovo modo di fare politica. Non solo perché spesso sono pratiche che hanno saputo rompere la cornice della sola tutela dei diritti delle persone interconnettendola con processi di rigenerazione del territorio e delle città; con attività tese a tutelare ambiente e beni comuni; con lo sviluppo di economie di prossimità e buoni lavori. Ma anche perché hanno assunto con consapevolezza l’idea che lavorare per l’emancipazione delle persone fragili è possibile solo in dialogo costante e positivo con le comunità. Trovando punti di reciproco interesse, mediando conflitti e proponendo dialogo sociale. Parlando anche con i diffidenti e gli incattiviti
Ricostruire alleanze orizzontali per ridare senso e prospettiva al fare politica e per tornare a parlare a chi oggi si sente solo e non riconosciuto dai decisori. Cambiare il senso comune in una prospettiva che rimetta al centro le istanze collettive, la cura piuttosto che il rancore sono due ambiti di una sfida enorme ma che, al contempo, è l’unica strada praticabile per un mondo progressista e di sinistra che voglia ritornare attraente e capace di provocare impegno e emozioni. Una strada che ha bisogno di ricollocare i nostri quotidiani in una dimensione politica e culturale, per dare nuove prospettive al nostro fare. Per quello che mi riguarda, da persona impegnata da 40 anni nel lavoro sociale si tratta di un urgente ritorno alle origini: avere chiaro, oggi più che mai, che il lavoro sociale o è lavoro politico o non è.