È difficile non essere d’accordo con le proposte emerse dall’ultima assemblea di Volere la luna e riepilogate con chiarezza da Livio Pepino (https://volerelaluna.it/che-fare/2021/09/22/volere-la-luna-che-fare-un-confronto-aperto/).
Forse sul tema importante del radicamento nel territorio, almeno per Torino, si può cercare di fare di più rete con altre iniziative affini alla nostra, ma operanti in altri quartieri o Comuni della cintura; si può inoltre cercare un maggiore confronto con altre realtà associative simili alla nostra e presenti in altre città, su altri territori. Sarebbe importante trovare anche interlocutori in altre parti d’Europa. Sono aspetti importanti ma, in tutta evidenza, sono solo sviluppi ovvi di quanto si sta già facendo. Aggiungo che forse nell’analisi impietosa della situazione politica e sociale che Volere la luna ha fatto al suo inizio e che è ampiamente confermata e drammaticamente accentuata da quanto è accaduto a livello nazionale, europeo e mondiale negli ultimi tempi, bisognerebbe tener conto anche dell’esistenza dei tanti movimenti ambientalisti, giovanili, femministi, territoriali, per i diritti civili e per quelli sociali, sindacali (questi ultimi anche e soprattutto – ahimè – al di fuori delle confederazioni storiche) in Italia, ma anche nel resto d’Europa e negli USA.
La constatazione dell’esistenza di una vasta articolazione di movimenti di opposizione e critica a questo sistema sociale non va intesa, però, come un elemento di consolazione rispetto al quadro buio della nostra analisi. Anzi è, secondo me, proprio il contrario: perché il più grosso problema che da trent’anni non riusciamo ad affrontare è quello di costruire un progetto di società alternativa a quello presente, pur in presenza di una sua crisi profonda e radicale. È anche questo vuoto di proposta che rende frammentati e parziali, diversi e divisi, i tanti, anche generosi e partecipati, movimenti di opposizione e critica al capitalismo sul piano economico e sociale e al liberismo su quello politico e ideologico.
Abbiamo tanti e articolati programmi di riforme economiche e sociali, di modifica dello stile di vita e di consumo in un’ottica rispettosa dell’ambiente, di crescita del ruolo delle donne in tutti i campi sociali, economici e politici, di innovazione e miglioramento della democrazia, di crescita e di liberazione dei diritti civili e di quelli sociali, di salvaguardia del territorio, di inclusione delle diversità, di modalità nuove di abitare e vivere le città e via aggiungendo: ognuno di questi programmi nasce dalla constatazione che il sistema socioeconomico capitalistico e la sua ideologia liberista sono un ostacolo al raggiungimento degli obiettivi elaborati. Tutti, quindi, sappiamo che nessuno o ben pochi di tali progetti sono concretamente realizzabili all’interno dell’attuale sistema socioeconomico. Ma lì ci si ferma: un altro mondo è possibile, ma nessuno osa delinearne i lineamenti fondamentali. Naturalmente c’è un perché.
Nel secolo scorso, almeno per tutta la sua prima metà, l’altro mondo possibile era il socialismo, quello statalista e centralista, forgiato nel 1917. L’esistenza di quel modello alternativo, pur con tutti i suoi limiti, errori, orrori e tragedie, aveva permesso alla socialdemocrazia europea, nelle sue varie declinazioni, di strappare importanti concessioni al capitalismo e aveva concesso ai Paesi ex coloniali di rivendicare una loro strada autonoma di crescita e sviluppo. Il crollo, probabilmente inevitabile, di quel modello ha azzerato la situazione e scatenato il capitalismo liberista più selvaggio, ma ha anche annullato il ruolo della sinistra, che è diventata afona, priva di identità e di progetto. La terza via di Blair, Clinton, Schröder, D’Alema e altri si è rivelata come una semplice accettazione dei principi del liberismo dilagante e ha affossato ogni possibilità di riflessione critica e di bilancio dell’esperienza storica passata.
Trent’anni di silenzio pesano come macigni oggi sulle nuove generazioni che manifestano e lottano contro il capitalismo, come se non ci fosse una storia alle loro spalle, dalla quale trarre criticamente spunti e riflessioni. Per molti di loro comunismo e nazifascismo sono stati regimi dittatoriali analoghi, come ha affermato lo stesso Parlamento europeo nella sua maggioranza, e le lotte degli anni ’70 in Italia sono solo gli anni di piombo, come ribadiscono banalmente i mass media. Paradossalmente (ma forse non tanto) solo negli USA i movimenti giovanili di opposizione parlano apertamente di socialismo, per indicare un’alternativa allo stato di cose presenti. Lo fanno con un invidiabile pragmatismo, ma anche saltando a pie’ pari un indispensabile bilancio critico della storia del movimento operaio internazionale. Per noi europei le cose sono indubbiamente più complicate e per quelli di noi che sono ormai vecchi diventa urgente e indifferibile promuovere con i giovani un confronto aperto sul tema del socialismo. I giovani di oggi non hanno bisogno di illusioni ingenue sul “sole dell’avvenire”, ma di una “bussola socialista” – come scriveva Erik Olin Wright – che li aiuti a seguire un percorso difficile ma concreto verso un’alternativa possibile.
Mio nonno paterno era un socialista e quando il fascismo andò al potere dovette rifugiarsi a Parigi, dove era già stato come operaio emigrato all’inizio del ‘900. Qualche mese dopo, fu avvicinato da un agente dell’OVRA che gli disse che se fosse rientrato a Torino senza più occuparsi di politica, nessuno lo avrebbe perseguitato. Accettò e rientrò, accolto dalla moglie e dai suoi due figli ancora piccoli: rispettò rigidamente la promessa fatta, chiudendosi in un mutismo sofferto anche in famiglia. Molti anni più tardi, in uno dei nostri consueti litigi politici, dissi a mio padre, che era cresciuto sotto il fascismo, senza nulla sapere delle opinioni politiche del nonno: «Stai zitto, tu che sei stato fascista…». Ancora oggi mi pento di quella frase, ma allora lui, per una volta senza alzare la voce e con molta calma, mi rispose: «Tu non puoi capire cosa vuol dire crescere senza avere alcun riferimento politico e culturale diverso da quello di un regime totalitario». Anche noi vecchi di oggi siamo stati sconfitti, come la generazione di mio nonno, ma il nostro silenzio verso i giovani non ci è stato imposto da nessuno, se non da un’inerzia che dobbiamo superare.
Concordo, come sovente mi succede, con quanto scrive Riccardo. Aggiungo poche cose, sui punti centrali del suo ragionamento.
-Stare nei territori e fare rete: ora che una serie di restrizioni sono cadute, non posiamo rimandare ancora l’impegno a costruire una rete mutualistica, fra associazioni e gruppi che sul territorio operano, sovente con modalità simili a quelle di Volerelaluna, ma senza parlarsi, confrontarsi, verificare le criticità e discutere di come superarle. Facciamo un elenco, che può essere più lungo o più corto, ma cominciamo
-La critica all’esistente, che sovente esplicitiamo nel nostro agire limitato ma concreto, è il punto di partenza; ma se non si comincia anche a discutere di come dotarci della “bussola socialista” di E.O. Wright si rischia di non avere gli strumenti giusti per orientare il nostro agire.
-Il passaggio di esperienze e di testimonianze fra le generazioni: che vuol dire che i vecchi hanno un patrimonio (anche di errori e di riflessioni su di essi) da trasmettere, ma hanno anche da capire ed imparare, per poter essere strumento utilizzabile dai più giovani e non noiosi tromboni. Ma bisogna mettere in piedi qualcosa, provarci, tipo laboratori, seminari, o qualche altra diavoleria, ma provarci.