Gianfranco Vitale è il padre di un uomo autistico inserito in una residenza sanitaria per disabili. È autore dei libri "Mio figlio è autistico" e "L’identità invisibile. Essere autistico, essere adulto".
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Chiamare “speciali” le persone autistiche è espressione di un linguaggio irreale, prima ancora che ambiguo. È una delle tante etichette che vengono appiccicate agli autistici, incuranti del rischio di seminare confusione e di banalizzare una realtà che, al contrario, è molto complicata, visto che l’autismo altro non è che l’abisso esistente tra una vita normale e un’esistenza profondamente e (spesso) drammaticamente “altra”.
Per il 2 aprile, giornata mondiale di sensibilizzazione dell’autismo, sono annunciate le solite celebrazioni. Ma c’è ben poco da celebrare, ché non c’è, nel Paese, nulla che si avvicini a una presa in carico pubblica decente di chi è affetto da autismo e delle loro famiglie. Per cambiare la situazione è necessario trasformare il 2 aprile in giornata di lotta e impegno civile per trasformare le (troppe) promesse in provvedimenti concreti.
C’è un luogo comune secondo cui a occuparsi degli autistici e delle persone fragili devono essere i familiari. È un errore, non foss’altro perché i familiari spesso non sono in grado di farlo e hanno bisogno anch’essi di vivere una vita dignitosa. La realizzazione di comunità socializzanti e capaci di favorire autonomia non è una delega ma una necessità per dare senso al termine “inclusione”.
Nel nostro paese sono 600.000 le persone autistiche. Sostanzialmente abbandonate, salvo meritorie eccezioni, dalla politica e dai servizi. Nella migliore delle ipotesi, ad esse sono offerte soluzioni assistenziali (magari con il supporto di psicofarmaci) che nulla hanno a che vedere con il soddisfacimento dei loro bisogni specifici. Senza un cambio di passo questa triste pagina di diritti negati si allungherà ancora.
In Italia vivono attualmente seicentomila persone autistiche (una ogni 77). Questa imponente fascia di popolazione è in larga misura abbandonata a se stessa e quasi sempre sono i genitori a reggere il peso della quotidianità. Sarebbe bene ricordarsene il 2 aprile (Giornata Mondiale per la Consapevolezza dell’Autismo): non per inutili parole di circostanza ma per cambiare registro.
Mentre il Governo detta disposizioni per l’accesso, in tempo di Covid, alle strutture socio-assistenziali e socio-sanitarie, i responsabili delle stesse si esibiscono in divieti e regole incomprensibili. A soffrirne sono, come sempre, i più fragili. A quando un documento delle associazioni del settore che rivendichi decisioni omogenee e razionali?
Di nuovo, come nel Conte-1, il ministero della disabilità (peraltro senza portafoglio, cioè senza competenze di spesa). Non se ne avvertiva il bisogno. Quel che occorre è, piuttosto, un cambio culturale e una politica che approcci la disabilità a partire dal riconoscimento e dalla tutela dei diritti.
Mio figlio Gabriele è autistico e vive in una struttura non potendo io, solo e ultrasettantenne, tenerlo in casa con me. Da settembre è, di nuovo, isolato dal mondo, senza rientri a casa, senza visite, senza attenzioni. Ora io chiedo: è giusto preoccuparsi del “tessuto produttivo” e non della salute e della dignità dei più deboli?