Piero Bevilacqua, già professore di storia contemporanea all’Università La Sapienza di Roma, è scrittore, saggista e politico.
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Si dice “democrazia decidente” ma si pensa a una svolta conservatrice e autoritaria. È questo che sta dietro all’evocazione di un presidente investito con elezione diretta, di un “sindaco d’Italia”, di una sorta di capo azienda. Infatti i primi decenni dell’Italia repubblicana, ricchi di riforme profonde e incisive, sono lì a dimostrare che non esiste alcun nesso necessario tra stabilità dei Governi e processi riformatori.
Abbiamo i fascisti al governo. Ma ci sono anche fatti nuovi e l’apertura di fronti di lotta inediti: dal cambio al vertice del Pd (non insignificante seppur tutto da decifrare e verificare) alla stagione referendaria ormai in corso. Occorre una regia unitaria. Un segnale può venire dal tavolo di lavoro varato dall’assemblea del 22 aprile promossa della Rete dei numeri pari alla Casa internazionale delle donne di Roma.
L’egemonia del neoliberismo è in frantumi ma sopravvive e ci trascina nella sua rovina perché non riusciamo a offrire alle masse, che chiedono di essere protette e rappresentate, altro che un’impotente frantumazione. E ciò perché nella nostra storia prevalgono, pur a fianco dell’intraprendenza dei ceti popolari, individualismo, indisciplina civile, assenza di classi dirigenti dotate di visione unitaria.
La guerra in Ucraina sta provocando decine di migliaia di morti, la distruzione di un Paese e un disastro ambientale. Per comprenderne le ragioni, all’apparenza prive di ogni razionalità, occorre guardarla in un’ottica geopolitica e cogliere gli interessi sottostanti di lungo periodo. In questa prospettiva è facile constatare quanto siano divergenti gli interessi dell’Europa e quelli degli Stati Uniti e della Nato.
L’idea che «al centro si vince» continua a contagiare la cosiddetta sinistra moderata. Dimenticando la storia recente, che dimostra come il moderatismo, a sinistra, ha significato farsi accettare dai gruppi dominanti e accedere agli esecutivi per fare meglio la stessa politica così favorendo la rabbia degli esclusi e il populismo.
La nostra Università, quale protagonista attivo della vita civile del Paese, non c’è più. E non l’ha uccisa il Covid-19, ma un insieme di processi e di scelte che l’hanno radicalmente trasformata in tutte le sue componenti (docenti, ricercatori, studenti). Ed è difficile vedere, dall’interno, spinte al cambiamento.