Guido Ortona, economista, è stato professore di Politica economica presso l’Università del Piemonte orientale. Le sue ricerche hanno riguardato soprattutto le economie di tipo sovietico, l’economia del lavoro e l’economia comportamentale. Tra i suoi libri, da ultimo, I buoni del tesoro contro i cattivi del tesoro (Robin, 2016)
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I dati sono univoci. Nel nostro paese un dipendente pubblico deve occuparsi delle pratiche di più di 50 cittadini, contro i 25-30 dei paesi con cui amiamo confrontarci. La conseguenza è evidente: è illusorio pensare di risolvere il problema dell’inefficienza della Pubblica Amministrazione, a cominciare dalla sanità, senza ricorrere a un massiccio aumento di personale.
Quel che resta della sinistra italiana chiede a gran voce l’adesione al trattato sulla riforma del MES, su cui è il Governo Meloni a opporre resistenza. Evidentemente non ha imparato nulla dalla vicenda della Grecia del 2015. Se il trattato venisse approvato, infatti, sarebbe forte il rischio di pesanti interventi a danno delle banche italiane e del nostro debito pubblico.
I commentatori italiani, e non solo, hanno perlopiù ignorato i dati macroeconomici di fondo che stanno alla base della guerra d’Ucraina. Eppure non dovrebbero essere trascurati, perché senza prenderli in considerazione non è possibile capire perché sia la Russia che gli USA abbiano preferito la guerra a un’intesa diplomatica.
L’interesse dell’Italia e degli italiani è che la guerra in Ucraina finisca al più presto. Perché, dunque, vi partecipiamo? Non per motivi ideali se, parallelamente, stringiamo accordi con un dittatore sanguinario come Erdogan. Forse solo perché siamo sostanzialmente un satellite, o una colonia, degli USA che alla prosecuzione della guerra hanno un interesse geopolitico.
A breve, in Europa, i “falchi” ricominceranno a chiedere all’Italia di “mettere in ordine i conti” intendendo con ciò una riduzione della spesa pubblica. Non è questa la strada, almeno a sinistra. Ancora una volta, come un secolo fa, la sinistra per essere tale deve proporre la redistribuzione dai ricchi ai poveri e un maggiore ruolo dello Stato, anche se questo implica un conflitto con l’Europa.
A questo punto della guerra due cose sono ormai chiare: la Russia ha incontrato una resistenza superiore a quella attesa e gli Stati Uniti puntano a una guerra di lunga durata. Meno chiaro è perché l’Italia è così subalterna a NATO e Stati Uniti e non si muove autonomamente per una soluzione di compromesso. Le ragioni sono diverse e concorrenti.
È difficile, in presenza di una guerra, azzardare previsioni su cosa succederà all’economia. Ma, in ogni caso, di fronte a un’Europa che cresce mentre l’Italia non ne è capace, è prevedibile che l’idea di aiutare l’Italia diventi sempre più impopolare nei paesi europei economicamente forti e che le politiche di austerità diventino sempre più popolari. Con conseguenze che sarebbero drammatiche.
Il titolo di questo intervento può sembrare retorico e nazionalista, quindi tipicamente di destra: ma era il motto di Ernesto Guevara. Ed è un motto giusto anche qui e ora. Le decisioni politiche che hanno il massimo effetto sulla vita delle persone vengono prese a livello nazionale. Questo, dunque, deve essere il terreno del massimo impegno per la sinistra.
Tassare i ricchi con un’imposta patrimoniale sarebbe giusto, necessario e possibile. E allora, perché non lo si fa? Certo perché la cosa non è gradita a chi dovrebbe pagarla. Ma c’è una ragione politica più forte: se mancano le risorse “bisognerà” privatizzare ulteriormente, i lavoratori saranno più ricattabili e così via.
Le leggi dell’economia in voga da 50 anni (in primis, l’efficienza dei mercati e l’esistenza di un equilibrio stabile) si sono rivelate sbagliate: per la decisiva ragione che viviamo in un ambiente dinamico in cui gli agenti interagiscono. Occorre costruire un nuovo paradigma. È quel che fa Mauro Gallegati nel suo ultimo libro.