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Claudio Novaro è avvocato a Torino ed è impegnato in numerosi processi in tema di movimenti e lotte sociali.
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L’armamentario è quello degli anni ’50. La polizia scioglie brutalmente un presidio di lavoratori in sciopero. Poi il pubblico ministero e il gip contestano agli scioperanti reati gravissimi con misure cautelari, perquisizioni e minacce di espulsioni. Ma accade a Piacenza, nel marzo 2021.
Eddi Marcucci, militante No TAV e combattente in Rojava contro l’ISIS, è “pericolosa” e va sottoposta alla sorveglianza speciale per due anni. Così la Corte d’appello di Torino che confonde la prova con il sospetto e la prevenzione dei reati con la repressione del dissenso.
Dana è stata ritenuta responsabile a titolo di concorso in una violenza privata non materialmente commessa, condannata a una pena esemplare, esclusa da ogni misura alternativa per «avere sfidato l’ordine costituito». Così scrivono i giudici evidenziando una cultura in cui lo scontro sociale è ridotto a questione criminale.
Da anni Torino è un laboratorio nelle tecniche di repressione giudiziaria dei movimenti sociali. Alle molte tessere del mosaico se ne aggiungono due: l’applicazione massiccia del divieto di dimora nella propria città e l’indiscusso protagonismo della polizia nel processo, fino ad esiti paradossali.
La repressione giudiziaria dei movimenti è, nel nostro Paese, all’ordine del giorno. La sua analisi svela i caratteri di quello che è stato denominato il “diritto penale del nemico” e le connesse trasformazioni in atto nella magistratura.
I media sono uno strumento essenziale per trasformare fenomeni collettivi in questione criminale e per rafforzare l’immagine di pericolosità dei loro protagonisti. Esemplare in questo senso è l’informazione sugli scontri avvenuti a Torino nel febbraio 2018 in una manifestazione contro un comizio di Casa Pound.
Un principio fondamentale del nostro sistema, presidiato dall’articolo 25 della Costituzione, impone che solo le azioni e non i pensieri, i progetti, le intenzioni possono avere rilievo penale. Ben diversa è la realtà dei processi agli anarchici, fondati soprattutto sulle ricostruzioni politiche e su conversazioni intercettate.
I processi agli anarchici sono, da sempre, un osservatorio esemplare di forzature delle regole, a cominciare dalle indagini interminabili con lunghe carcerazioni (spesso seguite da assoluzioni piene) e da intercettazioni della durata di anni. Ecco l’esempio di un recente processo concluso davanti alla Corte d’assise di Torino.
La repressione giudiziaria dei movimenti è, nel nostro Paese, all’ordine del giorno. La sua analisi svela i caratteri di quello che è stato denominato il “diritto penale del nemico” e le connesse trasformazioni in atto nella magistratura. Il “caso Torino” è, al riguardo, un laboratorio di particolare interesse.
Dopo i migranti tocca ai movimenti sociali. Il cosiddetto decreto Salvini ripristina il reato di blocco stradale con pene che vanno da due a 12 anni di carcere (pari, nel massimo, alla violenza sessuale di gruppo). E tutto avviene nel generale disinteresse e senza opposizione.