Claudio Novaro è avvocato a Torino ed è impegnato in numerosi processi in tema di movimenti e lotte sociali.
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A Torino, nei giorni scorsi, un corteo di studenti che protestava per l’arrivo di Giorgia Meloni in città è stato disperso dalla polizia con manganellate e cariche di inutile violenza. È, ormai, una sorta di tradizione sabauda. Ma ciò che ogni volta sorprende è il seguito giudiziario: contestazioni a pioggia di resistenza a pubblico ufficiale per i manifestanti e mai un rilievo per violenze ed eccessi di polizia.
Ancora una volta, nonostante le smentite dei giudici del riesame e del merito, la Procura e il GIP di Piacenza proseguono la crociata contro l’attività sindacale nella logistica. A sorprendere, oltre all’abnormità della contestazione di associazione a delinquere, è l’uso di toni, giudizi ed espressioni che dovrebbero restare estranei alla giurisdizione.
Torino continua ad essere un laboratorio di repressione del conflitto sociale. È accaduto da ultimo dopo le manifestazioni studentesche di febbraio: a scontri di modesta entità hanno fatto seguito carcere e arresti domiciliari anche nei confronti di ragazzi giovanissimi e incensurati. La logica è sempre la stessa: incarcerane uno per educarne 100.
Per polizia e magistratura ci sono, a Torino e in Val Susa, dei nemici pubblici che vanno ridotti al silenzio ed espulsi dalla scena: i centri sociali, i No Tav, il conflitto sociale. Il procedimento penale aperto da ultimo contro Askatasuna, fondato com’è sul nulla, ne è l’ennesima dimostrazione. È ora che lo capisca quel che resta della sinistra.
Per opporsi all’abbattimento di un parco e di una struttura di aggregazione, deciso per costruire l’ennesimo centro commerciale, un gruppo di associazioni, movimenti e cittadini organizza una marcia di protesta. La risposta? Il corteo viene pesantemente caricato dalla polizia tra gli applausi delle istituzioni cittadine (con il solo distinguo di un assessore). Così va la vita nel Belpaese…
L’armamentario è quello degli anni ’50. La polizia scioglie brutalmente un presidio di lavoratori in sciopero. Poi il pubblico ministero e il gip contestano agli scioperanti reati gravissimi con misure cautelari, perquisizioni e minacce di espulsioni. Ma accade a Piacenza, nel marzo 2021.
Eddi Marcucci, militante No TAV e combattente in Rojava contro l’ISIS, è “pericolosa” e va sottoposta alla sorveglianza speciale per due anni. Così la Corte d’appello di Torino che confonde la prova con il sospetto e la prevenzione dei reati con la repressione del dissenso.
Dana è stata ritenuta responsabile a titolo di concorso in una violenza privata non materialmente commessa, condannata a una pena esemplare, esclusa da ogni misura alternativa per «avere sfidato l’ordine costituito». Così scrivono i giudici evidenziando una cultura in cui lo scontro sociale è ridotto a questione criminale.
Da anni Torino è un laboratorio nelle tecniche di repressione giudiziaria dei movimenti sociali. Alle molte tessere del mosaico se ne aggiungono due: l’applicazione massiccia del divieto di dimora nella propria città e l’indiscusso protagonismo della polizia nel processo, fino ad esiti paradossali.
La repressione giudiziaria dei movimenti è, nel nostro Paese, all’ordine del giorno. La sua analisi svela i caratteri di quello che è stato denominato il “diritto penale del nemico” e le connesse trasformazioni in atto nella magistratura.