Riccardo De Vito, è giudice al Tribunale di Nuoro. Già presidente di Magistratura democratica, è componente del comitato di redazione della rivista Questione giustizia.
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L’annunciato decreto-legge Caivano è un manuale. La storia della sua approvazione e il clima politico in cui è maturato costituiscono una didattica esemplare di quella politica “legge e ordine” che preferisce l’ispettore Callaghan agli investimenti in scuola, servizi sociali, prevenzione. Eppure la realtà di tutto il mondo mostra che la repressione smodata nei confronti di bambini e ragazzi produce solo maggiore violenza.
A fronte della richiesta di archiviazione del pm il gip dispone l’imputazione coatta di rivelazione di segreto d’ufficio per il sottosegretario Delmastro. Apriti cielo! Governo e ministro della Giustizia gridano allo scandalo e promettono modifiche legislative. Anche se siamo di fronte a uno strumento per garantire l’uguale applicazione della legge.
“Alla Stazione successiva” (di Raffaele Caruso, sottotitolo “La giustizia, ascoltando De André”) è un libro da leggere e ascoltare. Un libro che chiama in gioco di continuo le emozioni e le esperienze di ogni lettore che possegga due fondamentali requisiti: la passione per le visioni del cantautore genovese e, in un modo o nell’altro, il lavoro con gli arnesi del diritto.
La sostanziale contemporaneità delle elezioni politiche e di quelle per i componenti togati del CSM ha, comprensibilmente, relegato in secondo piano queste ultime. Eppure il concreto funzionamento del governo autonomo di giudici e pubblici ministeri è una questione democratica di primo piano. E i risultati elettorali aprono scenari interessanti che è bene tenere sotto controllo.
Le riflessioni sul carcere abbondano ma sono per lo più limitate alla commiserazione del presente detentivo. Si sottrae a questo destino “Isole carcere. Geografia e storia”, di Valerio Calzolaio, preziosa mappatura dei luoghi di detenzione in mezzo ai mari e, insieme, originale approccio alla tematica della punizione e occasione per ragionare sulla funzione della repressione penale.
I referendum del 12 giugno incidono, insieme, su questioni marginali e su drammatici problemi reali (come l’abuso della custodia cautelare) ma, in ogni caso, non avvicinano la soluzione della crisi della giustizia. Perché lo strumento referendario è, in sé, inadatto e perché il dibattito di questi giorni propone soprattutto slogan (seppur di segno opposto). Di nuovo sarà un’occasione mancata.
La Corte costituzionale ha deciso: il referendum “cannabis legale” è inammissibile. Finiscono in fumo oltre seicentomila firme e la possibilità per il popolo italiano di prendere la parola su un tema che riguarda aspetti importanti del vivere in comune. Non era un esito obbligato. Ed è, considerata l’inerzia del Parlamento, un esito deludente che il Paese non merita.
Collaborare con la giustizia o morire in carcere: questa la condizione dei condannati all’ergastolo per mafia. È una scelta inumana e irrazionale. L’auspicio è che, dopo la Corte europea dei diritti dell’uomo, intervenga la Corte costituzionale a rimuovere un automatismo non necessario per una seria azione di contrasto della mafia.
Mentre l’orizzonte della politica continua a essere l’illusione repressiva, un segnale in controtendenza viene dalla Corte costituzionale. È la dichiarazione di incostituzionalità della norma che prevede la pena minima di otto anni per la detenzione di “droghe pesanti”. È solo un segnale ma, di questi tempi, non è poco.
La legge sulla “difesa sempre legittima” è stata approvata ieri dal Senato. È una legge che non risolve ma inasprisce quel bisogno di sicurezza che assume di voler tutelare. Insieme al decreto legislativo sulle armi, approvato qualche mese fa, aumenterà le paure e l’aggressività. L’esperienza degli Stati Uniti insegna.