Riccardo De Vito, è giudice al Tribunale di Nuoro. Già presidente di Magistratura democratica, è componente del comitato di redazione della rivista Questione giustizia.
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La sostanziale contemporaneità delle elezioni politiche e di quelle per i componenti togati del CSM ha, comprensibilmente, relegato in secondo piano queste ultime. Eppure il concreto funzionamento del governo autonomo di giudici e pubblici ministeri è una questione democratica di primo piano. E i risultati elettorali aprono scenari interessanti che è bene tenere sotto controllo.
Le riflessioni sul carcere abbondano ma sono per lo più limitate alla commiserazione del presente detentivo. Si sottrae a questo destino “Isole carcere. Geografia e storia”, di Valerio Calzolaio, preziosa mappatura dei luoghi di detenzione in mezzo ai mari e, insieme, originale approccio alla tematica della punizione e occasione per ragionare sulla funzione della repressione penale.
I referendum del 12 giugno incidono, insieme, su questioni marginali e su drammatici problemi reali (come l’abuso della custodia cautelare) ma, in ogni caso, non avvicinano la soluzione della crisi della giustizia. Perché lo strumento referendario è, in sé, inadatto e perché il dibattito di questi giorni propone soprattutto slogan (seppur di segno opposto). Di nuovo sarà un’occasione mancata.
La Corte costituzionale ha deciso: il referendum “cannabis legale” è inammissibile. Finiscono in fumo oltre seicentomila firme e la possibilità per il popolo italiano di prendere la parola su un tema che riguarda aspetti importanti del vivere in comune. Non era un esito obbligato. Ed è, considerata l’inerzia del Parlamento, un esito deludente che il Paese non merita.
Collaborare con la giustizia o morire in carcere: questa la condizione dei condannati all’ergastolo per mafia. È una scelta inumana e irrazionale. L’auspicio è che, dopo la Corte europea dei diritti dell’uomo, intervenga la Corte costituzionale a rimuovere un automatismo non necessario per una seria azione di contrasto della mafia.
Mentre l’orizzonte della politica continua a essere l’illusione repressiva, un segnale in controtendenza viene dalla Corte costituzionale. È la dichiarazione di incostituzionalità della norma che prevede la pena minima di otto anni per la detenzione di “droghe pesanti”. È solo un segnale ma, di questi tempi, non è poco.
La legge sulla “difesa sempre legittima” è stata approvata ieri dal Senato. È una legge che non risolve ma inasprisce quel bisogno di sicurezza che assume di voler tutelare. Insieme al decreto legislativo sulle armi, approvato qualche mese fa, aumenterà le paure e l’aggressività. L’esperienza degli Stati Uniti insegna.
Il processo di riforma dell’esecuzione delle pene è fallito. Le porte del carcere si chiudono e c’è, nella maggioranza politica, chi vorrebbe buttare la chiave. Anche se è sempre più chiaro che rieducare il reo alla socialità attraverso la chiusura è come insegnare a nuotare fuori dall’acqua.
La pena di morte è inammissibile e va abolita in tutto il mondo: non è una semplice esortazione papale ma il nuovo testo del Catechismo della Chiesa cattolica. È una svolta epocale ricca di conseguenze su molti piani.
Lo schema di decreto sull’ordinamento penitenziario approvato dal Consiglio dei ministri riduce la riforma a un guscio vuoto. Di più, è un provvedimento per molti versi dannoso che conferma il progetto di una giustizia tanto forte con i deboli quanto debole con i forti.