Michela Chiarlo, medico, lavora nel Pronto soccorso e nel reparto di Medicina d’urgenza dell’Ospedale San Giovanni Bosco di Torino
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La fuga dei medici si tocca con mano: sono medici di famiglia, “urgentisti” del Pronto Soccorso e non solo. Tutti vogliono scappare da condizioni di lavoro difficili, aggravate dalla carenza di personale e mal gestite dalle varie amministrazioni. La crisi investe tutti i livelli e non ha prospettive di miglioramento, almeno a breve termine. Così, consci della situazione, i giovani medici cercano di limitare i danni.
Omicron ha riportato al centro dell’attenzione dei media ospedali e Pronto soccorso, con gli scenari di sempre. Occorre, ovviamente, agire ora, ma, insieme, bisogna attrezzarsi per una convivenza di medio-lungo termine con il virus. E per farlo si deve guardare seriamente alle strategie potenzialmente applicabili a future pandemie e alla prevenzione delle malattie infettive in generale.
La pandemia non dà segni di flessione. A cambiare siamo stati noi, passando da un’accettazione incredula alla depressione e poi a una speranza che rapidamente ha lasciato spazio alla rabbia e a una negazione sorda. Neppure i vaccini, per di più mal gestiti, attenuano questi sentimenti. E, intanto, ospedali e medici sono al collasso.
Ciò che abbiamo imparato in ospedale, quest’anno, è la resilienza. Abbiamo imparato a fare lo stesso lavoro di prima, ma in condizioni diverse, perché oggi il problema sono i malati Covid, domani i puliti per i quali non abbiamo abbastanza posti letto e dopodomani chissà. E, poi, speriamo in un anno diverso. Anche se è poco probabile
Quando sarà la prossima ondata? tra due settimane o dopo le feste? Nel frattempo l’esasperazione cresce, e il soft lockdown nel periodo festivo pesa più che mai. Così l’argomento della settimana, anche in ospedale, è il vaccino: esiste? funziona? è pericoloso?
L’emergenza Covid è un domino. Migliaia di prestazioni sanitarie vengono differite. Sempre di più. È come scegliere chi penalizzare tra scuola, bar, ristoranti, teatri, legami familiari, librerie, centri sportivi. La scelta è difficile e qualcuno ci rimette. Ingiustamente.
Si sarebbe potuto, prima, fare molto. E, invece, in Pronto soccorso siamo ancora (di nuovo) a decidere a chi riservare una visita frettolosa, una telefonata in meno, una attesa interminabile, o a scegliere come distribuire posti letto o presìdi di ventilazione perché la coperta è sempre più corta.
Nella seconda ondata della pandemia, all’afflusso raddoppiato di pazienti e ai problemi connessi si sono aggiunti due pericolosi nemici: il moltiplicarsi di informazioni inaffidabili e il depotenziamento delle competenze. E il personale sanitario sembra un esercito senza capo in un territorio ostile.
C’è in ospedale, tra i medici, un clima di rabbia e frustrazione. Per le condizioni di lavoro. Ché, per il resto, non fa differenza che la gente ci applauda dai balconi o gridi al complotto, che ci regali il cibo o ci accusi di voler fermare il paese dall’alto del nostro stipendio fisso.
A giugno ci si era illusi ed erano stati smantellati presìdi e reparti anti Covid. Poi, quando si è capito che la bufera non era passata, era ormai tardi e oggi gli ospedali sono di nuovo in sofferenza. Qui la testimonianza di un medico torinese che già aveva descritto la situazione a primavera.