Paolo Borgna, già magistrato, è stato Procuratore della Repubblica aggiunto a Torino. E' presidente di Istoreto (Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea). Studioso di storia e di diritto è autore di numerose pubblicazione tra le quali “Il coraggio dei giorni grigi. Vita di Giorgio Agosti” [Laterza, 2011] e "Una fragile indipendenza. Conversazione intorno alla magistratura", con Jacopo Rosatelli [SEB27, 2021]. E' editorialista del quotidiamo "Avvenire".
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Attualmente i magistrati sono valutati solo dai loro colleghi. Il sistema, così, non funziona. È sotto gli occhi di tutti. Ed è chiaro che le valutazioni vanno integrate con quelle di chi ogni giorno vede come i magistrati lavorano. Gli avvocati, anzitutto. È una vecchia indicazione della sinistra che oggi la maggioranza della magistratura respinge. Incomprensibilmente.
In un’indagine su presunti illeciti di Ong, magistratura e polizia hanno intercettato per mesi le telefonate di giornalisti con loro fonti e loro legali. Forse la cosa è tecnicamente incensurabile ma mette il dito nella piaga: fino a che punto i diritti e la riservatezza di tutti noi possono essere compressi per ragioni di indagine?
La pandemia ha bloccato il Paese e anche i tribunali, aumentando l’arretrato in modo ingestibile. E quando il motore si imballa bisogna resettarlo. Per questo i tribunali devono essere alleggeriti da un carico che li metterebbe in ginocchio. E dunque, piaccia o no, bisogna cominciare a pensare a un’amnistia.
I centri di detenzione per migranti in Libia, una sentenza della Corte d’assise di Milano, un libro. Non si può, in poche righe, riassumere l’orrore che trasmettono le pagine del libro. Al termine della lettura, viene solo da dire: «Leggete questo libro, per favore. Non girate la testa dall’altra parte».