Riccardo Barbero ha militato in diverse organizzazioni politiche e sindacali della sinistra. Attualmente pensionato anche dal punto di vista politico. Collabora con i siti workingclass.it e volerelaluna.it
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Negli ultimi decenni il sindacato non ha saputo ridefinirsi in modo coerente con le trasformazioni del mondo lavoro e si è trasformato in una struttura elefantiaca sempre più staccata dai lavoratori. Recuperare il terreno perduto è difficile ma occorre provarci, cominciando con l’unione e la semplificazione delle proprie strutture e l’elaborazione di un punto di vista critico sul modo di produrre e su cosa produrre.
Che fare? Anzitutto conoscere la realtà. Governi e Confindustria ci ammoniscono a non ostacolare crescita e sviluppo. Ma non ci dicono che essi sono sostanzialmente finanziari. Di fatto, ad essere commercializzato come merce è il futuro. Il processo ha investito la stessa industria e, intanto, il 21% delle multinazionali si occupa di finanza.
Stare nei territori e costruire reti è fondamentale ma non basta. È necessario, insieme, definire un progetto alternativo di società, senza il quale i tanti movimenti settoriali non possono produrre cambiamento. Per gran parte del secolo scorso quel progetto è stato il socialismo. Poi è calato il silenzio. Oggi occorre recuperare progettualità e memoria.
C’è, nella storia della Repubblica, un filo rosso di violenze di polizia. Non si tratta di gesti di “mele marce” ma del perpetuarsi di una cultura che viene da lontano. Occorre, dunque, modificare quella cultura. Negli anni ’70 qualcuno ci provò e nacque la sindacalizzazione della polizia. Gli esiti non sono stati quelli sperati ma da lì occorre ripartire.
La lotta di classe, si sa, l’hanno vinta i ricchi. Ma cosa devono fare, oggi, quelli che stanno dall’altra parte, lavoratori occupati e disoccupati, donne e uomini, giovani e vecchi, attivi e pensionati, nativi e migranti, dipendenti e falsi autonomi? Sfidare avversari specifici e non un generico sistema. A cominciare dalla logistica.
La crisi in atto nella scuola e nella sanità ha radici antiche ed è stata solo acuita dalla pandemia. La cosa è da tempo acquisita a tutti i livelli. La politica, centrale e locale, ha fatto assai poco per invertire la tendenza. Ma anche i lavoratori dei settori coinvolti sono stati per lo più inerti. Non è tempo di cambiare registro?
Mentre l’epidemia imperversa le nude cifre documentano il fallimento del sistema sanitario. E la percezione dell’inadeguatezza del sistema si allarga: dalla scuola all’economia. Bisogna discuterne da subito perché, quando tutto sarà finito, non basteranno, per far fronte alla ricostruzione, gli abbracci e i buoni sentimenti.
Il quadro è impietoso: le iniziative della sinistra classica (politica e sindacale) vedono una prevalenza di anziani; i giovanissimi e i giovani guardano altrove, anche quando partecipano a movimenti o associazioni. Ma non è un buon motivo per farsi da parte. Anche perché, partendo da questa constatazione, c’è molto da fare.
Il modello sociale ed economico italiano si caratterizza per una spontanea tendenza alla decrescita infelice: poco lavoro, pochi investimenti, una fuga generalizzata dei giovani, un ambiente progressivamente degradato. Non sarebbe ora di abbandonare l’idea dei piccoli aggiustamenti e di cambiare radicalmente registro?
Che fare per porre le basi di quel “partito necessario che non c’è” di cui parla Tomaso Montanari? Occorre anzitutto una pratica politica che non proponga leader o manifesti ma stia nei territori e nei conflitti creando spazi fisici e culturali di confronto e poi una capacità di guardare alle esperienze a noi più vicine.