“Il grande carro” di Philippe Garrel

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Il grande carro è il nuovo film di Philippe Garrel, ultimo continuatore della Nouvelle Vague.

Garrel ha sempre fatto un cinema fortemente autobiografico, quasi diaristico, prendendo alla lettera il principio della camera-stylo: la cinepresa come una penna per prendere appunti su piccoli pezzi di vita. In questo film l’autobiografismo è al tempo stesso diretto e mediato. Diretto perché protagonisti sono i suoi tre figli, fratelli anche nel film e con i loro veri nomi: Louis, Esther e Lena Garrel. Mediato perché nel film l’impresa familiare che si chiama appunto Il grande carro non è il cinema, ma il teatro dei burattini. C’è un padre, che ha a sua volta ereditato l’impresa da suo padre, e che con grande entusiasmo tiene in piedi e dirige la compagnia: sua madre cuce i burattini, i figli li animano. Ma le sue forze declinano e assume allora un amico del figlio, Pieter. Alla morte del padre questo gruppo, tanto coeso e armonioso, si sfalda. Louis lascia la compagnia per debuttare a teatro, con grande successo. L’amico Pieter tenta di fare il pittore, con esiti fallimentari rispetto al mercato e alla sua salute mentale. Le sorelle cercano, con grande difficoltà, di portare avanti la tradizione di famiglia.

Nel gioco delle identificazioni autobiografiche, verrebbe da pensare che il padre rappresenti il regista stesso, ma il gioco è più complesso e sottile. La morte del padre, celebrata con un bel discorso funebre, ricorda piuttosto la morte di Maurice Garrel, padre del regista e attore di una qualche fama, mancato appunto nel 2011. E se il successo di Louis è uguale nel film e nella realtà, il regista più che nel padre non si identificherà piuttosto in Pieter, l’amico di talento ma poco funzionale al mercato, come è appunto stata la carriera del cineasta Philippe Garrel?

Tutto questo per dire che è molto pericoloso leggere il film come un gioco a chiave. Piuttosto va preso per la coda delle metafore che sgorgano dal suo titolo. Il grande carro è anche una costellazione di 7 stelle; qui è una costellazione di persone e i personaggi del film sono 8, appena uno in più. Ogni persona brilla di per sé stessa e, come per le costellazioni, a legarle è un disegno immaginario che convenzionalmente componiamo. Non potrebbe essere anche una definizione di famiglia? Ma il grande carro richiama anche La carrozza d’oro di Jean Renoir, film su un gruppo di teatranti, come una famiglia appunto, dove le maschere della commedia dell’arte sono così simili a quelle dei burattini. E infatti nel film di Garrel i figli esorcizzeranno la morte del padre proprio mettendo in scena uno spettacolo con Pulcinella che sconfigge la Morte. E come non pensare a Truffaut, il più popolare e probabilmente il più grande regista della Nouvelle Vague, che proprio in omaggio a Renoir chiamò la sua casa di produzione Les films du Carrosse?

Ma la metafora più elementare del carro è quella della vita stessa, in un avanzare inesorabile, tra paesaggi ridenti o tempestosi, fino a una meta inevitabile. E in un certo senso anche il film è un carro, sul quale lo spettatore sale a una fermata qualunque, trovandosi in mezzo a una storia già iniziata da tempo. Garrel non vuole raccontare una storia compiuta, ma invece sembra semplicemente spingerci a unire i puntini tra una scena e l’altra, appunto come le stelle di una costellazione. Fin dall’inizio ci catapulta subito in medias res e ci mette di fronte ad alcuni fatti. Anzi, ad alcuni gesti. Gesti quotidiani che riescono a esprimere i sentimenti dei personaggi molto più del dialogo che è volutamente scarno (le scene più dialogate sono quelle in cui recitano le marionette, come a dire che molto spesso parlare è, già di per sé, recitare). La nostalgia per una persona cara morta è svegliarsi in piena notte, vedere una fotografia sul comodino, andare in cucina, trovare un altro familiare che non riesce a dormire e mettersi a mangiare insieme qualcosa. Innamorarsi di una ragazza è sfilarle lentamente il foulard che porta in testa prima di darle un bacio. Non accettare la morte del proprio figlio è distrarsi durante il funerale e finire a nascondersi tra le tombe. E così via, in una totale antiretorica. Sono questi frammenti di vita, semplici e umili come le conchiglie raccolte da un bambino in spiaggia, a farci innamorare del cinema di Philippe Garrel.

Gli autori

Francesca Marcellan

Francesca Marcellan vive a Padova, lavora presso il Ministero della Cultura e scrive di arte, soprattutto nei suoi aspetti iconologici. Sulla scorta di Morando Morandini, va al cinema "per essere invasa dai film, non per evadere grazie ai film". E quando queste invasioni sono particolarmente proficue, le condivide scrivendone.

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