“Oci ciornie” e la natura morta

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Il cinecocomero è la versione estiva del cinepanettone, che per qualche anno si è tentato di proporre al pubblico, con limitato e breve successo. Qui si vuole invece ricordare un altro cocomero (anguria, se siete del nord-Italia) cinematografico, che fruttò all’indimenticabile Marcello Mastroianni la palma d’oro come miglior attore a Cannes, nel 1987, e forse il suo ultimo grande ruolo.

Il film, una coproduzione italo-russa, è Oci ciornie, del regista russo Nikita Michalkov; la storia mescola insieme alcuni racconti di Čechov, fra i quali predomina La signora col cagnolino. Un film su misura per Mastroianni, che aveva interpretato tante volte Čechov a teatro e che per questo autore aveva avuto un vero e proprio “colpo di fulmine”: «Forse amo Čechov in modo così speciale perché i suoi personaggi, i suoi racconti, assomigliano alla vita. O forse corrispondono alla mia natura, anche alla mia natura d’attore. Mi piace quel piccolo mondo sommesso fatto di personaggi pieni d’illusioni, inconcludenti, immersi in una eterna, cialtronesca vaghezza: creature fantasiose, al tempo stesso vittime e complici del mondo che le circonda». E un fantasioso cialtrone è anche Romano, il protagonista di Oci ciornie, che non ha mai dovuto lavorare grazie al matrimonio con una donna ricca (Silvana Mangano) e che nell’estate del 1903, alle terme di Montecatini, intreccia un breve amore con Anna (Elena Safonova), una giovane e ingenua russa, appunto La signora col cagnolino. Quello che doveva essere uno dei tanti incontri della sua vita, leggeri e presto dimenticati, si rivelerà tutt’altro in una scena che racchiude, senza parole, tutto il senso del film. Sono le ultime ore della notte nella stanza di Anna, dove i due, per la prima e ultima volta, hanno fatto l’amore, anche se tutto è avvenuto fuori scena. L’unico rumore è il ticchettio dell’orologio. Lei è stesa a letto, la vediamo di spalle, col viso rivolto verso il muro. Canta piano una canzone in russo, passa lentamente un dito sul muro e a un certo punto il dito lascia un segno: è bagnato delle sue lacrime. Lui è seduto a tavola, e la guarda. Come nel racconto di Čechov, «sul tavolo della stanza c’era un’anguria. […] Se ne tagliò una fetta e si mise a mangiarla lentamente. Trascorsero in silenzio almeno mezz’ora». Nel racconto lei poi parla molto, pentita di aver tradito il marito, che pure ha sposato senza amore. Nel film, invece, raggiunge Romano a tavola, dopo che è suonato un carillon dell’orologio, forse una sveglia (la luce infatti entra ora dalle finestre); lui vede che ha pianto e le chiede perché, avendo come risposta solo una breve frase in russo, incomprensibile. L’unica risposta che può darle, allora, è riprendere subito il suo ruolo buffo e ciarliero, raccontando una storiella divertente. A questo punto parte la musica che, diventando sempre più alta, copre le parole di Romano, mentre la macchina da presa si sposta dal tavolo e dalle fette di anguria smangiucchiate per andare verso il letto, scoprendo così lentamente gli oggetti della stanza: un cassettone con dei fiori secchi sotto una campana di vetro, varie scatole di ceramica, uno specchio, un vasetto con dei fiori freschi gialli, che Romano aveva colto per lei in una scena precedente; il cane che dorme accanto alla sua ciotola d’acqua; l’ombrellino di lei poggiato a un mobile; il comodino con un libro di preghiere, un lume acceso e l’orologio da tavolo. Infine, la macchina da presa si ferma sul cuscino bagnato di lacrime e il segno fatto sul muro dal dito bagnato di pianto e, su questo, c’è lo stacco brusco alla scena successiva.

Michalkov è partito dall’anguria, che era presente nel racconto, per raccontare quella stanza, poche ore prima resa così viva dall’amore, come un’unica grande natura morta, dove il tempo (il ticchettio dell’orologio) divora tutte le cose. Nel regista c’era senz’altro memoria del genere pittorico della natura morta, tipico dell’età barocca, dove l’anguria è una presenza frequentissima. La si può trovare, per lo più aperta, insieme a fiori appassiti, a frutta bacata o ammaccata, a oggetti impolverati, a candele spente, a strumenti musicali poggiati e quindi silenziosi, a tazze rovesciate, a biscotti rosicchiati e a tante altre cose, delle quali condivide la simbologia: è la vita non più perfetta ma già consumata dal tempo, la fine e la morte che si celano in tutte le cose, la vanitas vanitatum. In questa scena Michalkov è così riuscito a rendere, solo per immagini, la riflessione che fa Čechov poco più avanti nel racconto, mentre i suoi due personaggi siedono su di una panchina, guardando il mare: «Le foglie degli alberi erano immote, le cicale frinivano e il monotono, sordo rombo del mare che giungeva di laggiù parlava della pace, del sonno eterno che ci attende. Così rumoreggiava, giù in basso, quando là non c’erano ancora né Jalta, né Oreanda, così rumoreggia ora e rumoreggerà in maniera altrettanto sorda e indifferente quando non ci saremo più. E in questa costanza, nell’assoluta indifferenza verso la vita e la morte di ognuno di noi, si cela forse il pegno della nostra salvezza eterna, dell’incessante moto della vita sulla terra, dell’ininterrotta perfezione».

E poi Michalkov cambia ancora la storia rispetto al racconto, nel quale Anna se ne va dopo parecchi giorni, richiamata da una lettera del marito malato e accompagnata alla stazione dal suo amante. Nel film, invece, scappa di nascosto, quel giorno stesso. Romano, non vedendola a colazione, va a cercarla nella sua stanza. Porta con sé un’anguria (ancora!), nella quale ha intagliato un volto sorridente, mettendoci in cima il suo cappello. Con questa, fa scherzosamente capolino attraverso la porta, per rendersi poi subito conto che non c’è nessuno. Di nuovo la macchina da presa percorre la stanza, ma adesso è vuota, tutti gli oggetti sono spariti, è rimasto solo il piatto con le bucce dell’anguria al centro del tavolo, sul quale un’inquadratura si sofferma. La vita, l’amore, sono stati consumati, pensare che siano ancora interi è solo un’illusione o uno scherzo, appunto come l’anguria-faccia che domina la conclusione della scena, addirittura raddoppiata da uno specchio. Romano l’ha poggiata sul comodino accanto al letto, dove si è seduto a leggere la lettera d’addio di Anna, scritta in russo e quindi incomprensibile, come l’ultima frase che gli aveva detto. La scena finisce col primo piano dell’anguria intagliata con il suo vacuo sorriso, fuori posto in questo dramma come la superficialità (la vanitas) di Romano, illuso che nulla nella sua vita possa mai diventare importante.

Da allora sono passati 36 anni e il tempo ha travolto e cambiato molte cose. Marcello Mastroianni è morto nel 1996. Nikita Michalkov ha avuto un Leone d’oro alla carriera a Venezia nel 2007; nel 1995, con Il sole ingannatore, aveva vinto un Oscar, mentre oggi ne propone il boicottaggio, da convinto sostenitore di Putin. Ma un film come Oci ciornie resta, come ogni vera opera d’arte, «nell’assoluta indifferenza verso la vita e la morte di ognuno di noi».

Gli autori

Francesca Marcellan

Francesca Marcellan vive a Padova, lavora presso il Ministero della Cultura e scrive di arte, soprattutto nei suoi aspetti iconologici. Sulla scorta di Morando Morandini, va al cinema "per essere invasa dai film, non per evadere grazie ai film". E quando queste invasioni sono particolarmente proficue, le condivide scrivendone.

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