“Rapito” di Marco Bellocchio

Volerelaluna.it

05/06/2023 di:

«L’ho fatto perché non finisse nel Limbo», si giustifica la serva cattolica che ha battezzato, credendolo in punto di morte, uno dei bambini della famiglia ebrea presso cui è a servizio. Siamo a Bologna (Stato pontificio) nel 1852 e ancora si crede che i bambini non battezzati, che hanno la sola macchia del peccato originale perché ancora incapaci di peccare, dopo la morte non finiranno né in Paradiso né all’Inferno ma, appunto, in uno stato liminale tra i due che, a differenza del Purgatorio, sarà eterno (chi avesse la curiosità di sapere qual è invece l’attuale posizione della Chiesa sul tema, può consultare il sito del Vaticano).

Questo bambino è Edgardo Mortara e pochi anni dopo, nel 1858, scoppierà un caso internazionale, quando papa Pio IX (Paolo Pierobon), autorità non solo religiosa ma anche civile, farà togliere il bambino alla famiglia, per crescerlo nella religione cattolica.

Marco Bellocchio racconta l’inizio di questa storia con accenti da libro Cuore, come lui stesso ha rivendicato, e sembra rivolgere allo spettatore soprattutto una mozione degli affetti, tra bambini spauriti, padri fieri, madri piangenti, gendarmi riluttanti e pietosi che però non possono sottrarsi al loro dovere. Ma ben presto il film rivela la sua vera natura, trasformandosi in una sequenza di riproduzioni di riti religiosi, sempre più onnipresenti fino ad avvolgere lo spettatore in una sorta di angosciante tela di ragno. Riti in ebraico, riti burocratici nello svolgersi di un processo, riti cattolici in latino. In particolare questi ultimi non riguardano solo le preghiere, la messa e le penitenze, ma anche i cerimoniali del potere papale, ad esempio col bacio della pantofola, sulla quale si indugia in primi piani che evidenziano perfino l’umidore lasciato dal poggiarsi ripetuto delle labbra sul velluto (e la reiterazione è una componente fondamentale della ritualità). C’è un rito per tutto e di fronte a ogni problema si fa ricorso a un rito.

Questa pervasività trapassa poi nella vita quotidiana, con la formalità di un pranzo alla tavola del papa, ma anche con l’attenzione scaramantica a non lasciare il cappello sul letto, un dettaglio minimo che però ci dà la chiave di lettura di cosa siano tutti questi riti per Bellocchio: rituali nevrotici per tenere a bada l’angoscia. Risale a Freud l’idea che la religione possa essere considerata una nevrosi ossessiva universale, ma il regista cala nella storia le ragioni di questa nevrosi, le origini dell’angoscia: per Pio IX è la prossima fine del potere temporale; per la comunità ebraica l’essere una minoranza nel migliore dei casi solo tollerata, nel peggiore perseguitata. Per lo stesso Edgardo Mortara, bambino rapito che sceglierà poi di farsi sacerdote, l’angoscia provocata dallo sradicamento violento e improvviso. Tutti i personaggi si attaccano pervicacemente ai riti, al tempo stesso gabbia e protezione, e più di tutti forse la madre di Edgardo, che si rifiuta di convertirsi al cattolicesimo, che sarebbe il solo mezzo per riavere il figlio. Sotto gli accenti umanissimi che le dà Barbara Ronchi, si tratta in realtà dell’ennesima madre di Bellocchio che, di fatto, antepone la religione alle persone e qui in particolare il dilemma, che potrebbe essere equiparato a quello del giudizio di Salomone, non si affaccia neppure alla sua mente: conta più il principio di suo figlio. In questo senso, la sua figura è al tempo stesso opposta e perfettamente speculare a quella del papa.

Le uniche incrinature emergono invece proprio nella figura di Edgardo Mortara, in rari momenti nei quali, da bambino e poi da ragazzo, ha dei brevissimi scoppi di ribellione, dai quali sembra quasi agito, sfuggendo a ogni controllo razionale. Forse perché proprio lui, che è stato battezzato per risparmiargli il limbo, è invece paradossalmente inchiodato in una eterna condizione limbale, tra due religioni e due famiglie, quella d’origine e quella acquisita, nella quale il papa gli fa da padre? Qualunque sia la risposta, un film da non perdere.