Ultimamente i film tratti da gialli famosi sembrano concepiti da un attempato insegnante di recitazione ancora devoto al metodo Stanislavskij, al grido di: «Approfondire la psicologia del personaggio! Trovare i suoi traumi fondativi!».
In Assassinio sul Nilo (2022), in questa smania ricostruttiva, abbiamo addirittura scoperto che la traccia del trauma si nasconde letteralmente sotto i baffi di Poirot, che quindi non sono affatto innocenti baffi che, curatissimi, manifestano la vanità del suo proprietario, come ci ha fatto credere per decenni quella sprovveduta di Agatha Christie, incapace di trovare più profonde motivazioni. Ugualmente questo Maigret di Patrice Leconte, perde rapidamente di vista l’inchiesta sul delitto (se mai gli è interessata), per indagare invece sulla depressione di Maigret, che a inizio film ci viene presentato durante una visita medica attraverso una serie di primissimi piani di particolari, a partire dal braccio con il misuratore della pressione. Lo spettatore è così subito invitato a ficcare il naso, insieme al medico e al regista, dentro al corpaccione del protagonista (Gerard Depardieu), per scoprire perché è triste, spento, senza più interesse per niente e non ha neppure più appetito (inaudito per Maigret!). Nel frattempo sul film cala stabilmente una colata di grigio sulle scenografie e sulla fotografia, giusto per farci immedesimare meglio con la pesantezza del suo trauma fondativo.
La morte di una ragazza – e il romanzo di Georges Simenon Maigret e la giovane morta – non sono dunque che il pretesto per una sorta di psicodramma catartico che permette al protagonista di rielaborare un lutto affrontando i suoi fantasmi. Non manca neppure la scena in cui una ragazza viene vestita, pettinata e truccata come la morta, proprio come nella Donna che visse due volte (1958). Ma qui per Maigret la morta rappresenta a sua volta il doppio di un’altra ragazza ancora, così Leconte si esibisce in un doppio salto mortale, quando Hitchcock si era più modestamente limitato a quello semplice.
Si può ovviamente obiettare che i film non hanno nessun dovere verso i libri dai quali sono tratti, che il film è sempre altro e che va visto in sé e per sé. Affermazioni sacrosante, ma Maigret e Assassinio sul Nilo pagano un equivoco di fondo, che inficia tutta l’operazione. Dimostrano di ignorare, infatti, che nel giallo classico l’investigatore non è una persona, ma una funzione. E tutto quello che sembra caratterizzare la persona è frutto di una scelta iniziale del romanziere, spesso anche casuale, come confessava la Christie, e serve solo a gettare fumo negli occhi al lettore per fargli vedere, per l’appunto, una persona là dove c’è solo una funzione; un gioco di prestigio tanto più riuscito quanto più è grande nel suo genere lo scrittore. E infatti questi personaggi sono caratterizzati da pochi tratti immutabili, non c’è evoluzione del personaggio da giallo a giallo e sono tutti tenacemente attaccati alle loro abitudini: Nero Wolfe inamovibile, gastronomo raffinato, coltivatore di orchidee; Hercule Poirot vanitoso, metodico, ordinato; Maigret marito fedele, fumatore di pipa, amante della buona cucina casalinga, forte bevitore. Gli investigatori sembrano in primo piano, in realtà servono solo a portare in giro il lettore come un Pollicino fino a trovare la soluzione del caso. Quello che li differenzia davvero è il metodo, che poi è la cifra dello scrittore e la sua idea del mondo e dei rapporti umani, un incastro geometrico per la Christie, un inferno per Simenon.
Questi film, dunque, pretendendo di dare profondità psicologica a una funzione, sacrificano la delicata struttura del giallo a un’impresa impossibile. Tanto più impossibile in questo Maigret, nel quale il corpo enorme di Depardieu e il suo altrettanto enorme passato cinematografico costituiscono un ingombro così eccessivo che davvero nel film non resta spazio per vedere nient’altro.
Partire da un pretesto (e, come si scriveva una volta, da un pre-testo); creare una dimensione mortifera, grigia, fatta di primi e primissimi piani, sullo sfondo di una città a cui non fare attenzione se non per squarci quasi insignificanti, ancorché si tratti di Parigi; invadere la scena cinematografica con l’enorme presenza di Maigret/Depardieu, alla ricerca non dell’assassino ma della possibilità di sottrarre un innocente (qui, una innocente) al fango metropolitano in cui rischia di naufragare. “Se riesci a costruire un universo coerente, per quanto folle esso sia, hai già ottenuto la sospensione d’incredulità necessaria a raccontare quello che vuoi” (Dario Argento). Questo ha fatto Leconte, che si è lasciato alle spalle il romanzo, riducendo il giallo ad una trama esilissima e costruendo un universo coerente. Cosa che fa di questo film un’opera meditata e tutt’altro che banale o poco riuscita. E, a mio parere, un ottimo omaggio al miglior Simenon.