Paolo Virzì è sempre stato, fin dal suo esordio, il regista delle dicotomie: personaggi con opposte condizioni sociali in lotta fra loro. In La bella vita il motivo era grave (la donna divisa tra il marito operaio e l’amante presentatore di tv locale), in Ferie d’agosto futile (il rapporto di vicinato in vacanza, tra intellettuali radical chic e bottegai teledipendenti), ma veniva sempre messa in scena una lotta di classe, evento raro nel nostro cinema contemporaneo. Con un però: lo sguardo dall’alto del regista, narratore onnisciente di tipo ottocentesco, riversava su tutti i suoi personaggi, quasi indistintamente, una pietà che finiva per disinnescare il senso di questa lotta. Se siamo tutti dei poveracci, che senso ha contrapporci?
Questo processo è ora arrivato alle sue estreme conseguenze nell’ultimo film, Siccità, dopo alcune prove meno riuscite, che erano forse proprio dei tentativi di uscire da uno schema che via via mostrava sempre più la corda, in quanto fortemente contraddittorio. In Siccità non c’è più un campo di battaglia con fronti contrapposti, ma piuttosto un formicaio scoperchiato e brulicante, nel quale ogni singolo individuo si muove senza posa, nello stato di emergenza di una Roma piegata da un’immaginaria estrema carenza d’acqua, con il Tevere disseccato e colori desertici. L’acqua che non c’è diventa per ogni personaggio simbolo di altre mancanze, di altri vuoti.
Come nell’esplicito modello di America oggi (1993) di Robert Altman, vediamo dipanarsi, e a volte intrecciarsi, le storie dei numerosissimi personaggi, senza che nessuna di queste abbia un preciso inizio e una fine. Minuscoli frammenti di vita, accomunati dalla disperazione e aggrappati a un’illusione o, più semplicemente, a una routine. L’unica differenza è la consapevolezza della disperazione, che è affidata al personaggio al quale Virzì guarda con maggior rispetto, la dottoressa interpretata da Claudia Pandolfi e che la figlia chiama “Terminator”, a dimostrazione che la sua lucidità resta inutile perché non si trasforma in azione, in capacità di uscire dall’individualismo per ricostruire un “noi”, anzi sembra separarla ancora di più dagli altri.
Dalla compattezza di questo quadro si staccano invece gli unici due personaggi senza traccia di disperazione: un idrologo, diventato volto televisivo (Diego Ribon), e una diva del cinema (Monica Bellucci). L’incontro dei due vanesi si conclude brindando e chiacchierando abbracciati in una vasca idromassaggio, nella terrazza del lussuoso attico di lei con vista su una Roma che sembra ancora bella. La superficialità della diva e l’approccio distaccato dello scienziato li mettono ugualmente al riparo dalle preoccupazioni, facendoli godere serenamente del momento. Senza dubbio l’idrologo è l’unico personaggio presentato con toni francamente comici e quella della Bellucci è poco più che una comparsata, ma resta il fatto che allo spettatore gli unici due “salvati” sembrano loro.
Dalla lotta di classe al carpe diem, il percorso del regista sembra compiuto. Quello che preoccupa è che Virzì ha sempre avuto una capacità quasi rabdomantica di recepire e rappresentare, della società italiana, il presente e i suoi sviluppi prossimi venturi, come il ventennio berlusconiano appena apertosi e già rappresentato con chiarezza in Ferie d’agosto, girato nel 1995 ma ideato nell’estate del 1993, addirittura prima della discesa in campo del Cavaliere. Quindi si esce dal cinema turbati, perché, come nella migliore tradizione della commedia all’italiana, i film più riusciti di Virzì non sono mai solo film, ma anche specchi nei quali riconoscersi con un brivido di sgomento.