Catherine Spaak (1945-2022), morta settantasettenne pochi giorni fa, è sempre ricordata come “la lolita del cinema italiano”; non a torto, poiché nasce come attrice nello stesso anno della prima edizione italiana di Lolita (1959), romanzo che ispira il film di Alberto Lattuada Dolci inganni (1960, disponibile su Raiplay).
Lattuada, grande scopritore (in tutti i sensi) di bellezze femminili, sceglie come protagonista la figlia quindicenne di Charles Spaak, sceneggiatore belga suo amico. Interpretando un personaggio di minorenne seduttiva, che prende l’iniziativa nei confronti di un uomo adulto e si dimostra padrona del gioco, la Spaak diventa l’incarnazione di una fantasia maschile sulla quale la macchina da presa indugia compiaciuta, con l’occhio del regista che diventa a tratti esplicitamente voyeuristico, come nella lunga sequenza iniziale dedicata al risveglio della ragazza dopo un sogno erotico. E a questo immaginario la Spaak resterà inchiodata, continuando a fare la lolita altoborghese anche nei film immediatamente successivi (La voglia matta, Il sorpasso), fino alla svolta de La Parmigiana (1963, disponibile su Youtube) che è veramente l’esame di maturità da attrice della diciottenne.
Il regista Antonio Pietrangeli distrugge la maschera di Lolita, per mostrare la donna che c’è dietro e, soprattutto, il contesto in cui si muove e che la muove. Anche qui il punto di partenza è un libro allora di grande successo, l’omonimo romanzetto pruriginoso di Bruna Piatti (1962), storia dell’apprendistato sentimental-sessuale di un’adolescente senza famiglia e senza mezzi che passa da un uomo all’altro, un po’ per amore e un po’ per interesse. Commissionatogli un instant-movie per cavalcare l’onda scandalistica del libro, Pietrangeli accetta di trarne un film, ma solo per raccontare la storia a modo suo, cioè leggendola come il prodotto di un preciso momento storico. Sono gli anni del boom economico, esploso per tanti ma non per tutti (come lamenta uno dei personaggi: «Er boom, er miracolo… sarà che non vado in chiesa ma non sono mai stato miracolato»), mettendo comunque in crisi modelli di vita radicati, anche e soprattutto per le donne. Così la parmigiana Dora si trova costretta a confrontarsi con aspettative maschili schizofreniche, improntate da una parte alla più rigida morale cattolica del suo tutore e di un fidanzato e dall’altra al desiderio di usare il suo corpo come una merce (dalle foto pubblicitarie a scambi ben più bassi). Né abbastanza sottomessa, né abbastanza cinica, Dora si barcamena, incapace di seguire fino in fondo una linea di condotta; la ragazza si affida solo ai propri sentimenti, ma scopre ogni volta che è un lusso che una ragazza senza mezzi non può permettersi, ed è così condannata a una successione di scacchi che non conducono mai a una progressione. Sembra inchiodarla a un eterno presente anche la struttura del film, intessuta di lunghi flash-back che creano una dimensione di compresenza temporale di passato e presente.
Il realismo di questo ritratto, così come delle altre donne di Pietrangeli, era raro allora nel cinema italiano, come ricordava Ettore Scola, che sceneggiò il film insieme a Ruggero Maccari e al regista: «nelle altre sceneggiature, negli altri film che facevamo, la donna presentata era una mignotta o una madre o una sorella, e valevano un po’ come maschere teatrali. Con Antonio si è fatto un lavoro diverso». E, come capita spesso in Pietrangeli, nel personaggio c’è anche molto dell’attrice: una famiglia assente (per sua stessa ammissione), scelte di vita precoci, azzardate e troppo impegnative per la sua età (una figlia e un matrimonio a 17 anni), una irrequietezza che si manifestava in periodici radicali cambiamenti amorosi e professionali, dal cinema alla TV alla scrittura. Il cinema le riserverà poi solo parti di bella donna e nessun ruolo particolarmente rilevante. Ricordarla oggi come la Parmigiana, e per una volta non come lolita, è il nostro modo di renderle giustizia.