Il regista cileno Pablo Larraín (classe 1976) si è fatto conoscere e apprezzare per aver raccontato il suo paese negli anni della dittatura di Pinochet in film come Post mortem (2010) e No. I giorni dell’arcobaleno (2012). Se già nel 2016 si era fatto tentare dal genere del biopic, con Jackie, un ritratto della vedova di John Kennedy, oggi con Spencer si dedica a un altro mito femminile del Novecento, ossia Lady Diana Spencer in Windsor, infelice moglie (poi ex) dell’eterno erede al trono d’Inghilterra, l’ormai settuagenario principe Carlo. Il film, ambientato nella tenuta di Sandringham, si concentra su tre giorni (vigilia, Natale e santo Stefano), che sono presentati come gli ultimi trascorsi da Diana in seno alla famiglia reale, prima di scegliere di staccarsene per sempre. La visione si apre con un’epigrafe che suona come un avvertimento per lo spettatore su ciò che si troverà a vedere: “A fable from a true tragedy” (“Una favola tratta da una tragedia vera”).
Favole e tragedie hanno in comune i loro personaggi: regine, principi e principesse. La vita di Diana può a buon diritto essere definita una tragedia, visto che si è conclusa nel 1997 con una morte violenta e l’ombra del sospetto che essa non sia stata frutto di una casualità. E di una tragedia l’opera ha la struttura, rispettando l’unità di tempo e di luogo e lasciando gli avvenimenti violenti fuori dalla scena (non solo quelli violenti, in realtà, visto che nel film non succede assolutamente nulla, tranne parecchie vomitate della protagonista nella tazza del cesso, indugiando un po’ troppo sulla sua bulimia). Dalla tragedia, però, Larraín ritiene di aver tratto una favola, cioè un racconto che, anziché catartico, dovrebbe essere istruttivo. Come recita Esopo, «la favola insegna che…».
Ma cosa insegna questa favola? E cosa ci dice di noi, se è vero che anche il cinema classico hollywoodiano, con le sue star, costruiva le favole di cui il pubblico di volta in volta aveva bisogno?
Per capirlo, si può partire dalla trama del film: giovane principessa si rifiuta di indossare i vestiti eleganti che le sono imposti e di mangiare il cibo sofisticato preparato dai cuochi della regina, venendo così disapprovata dalla famiglia del marito; spinta quasi al suicidio da tale disapprovazione, si salva fuggendo in jeans e cappellino da baseball insieme ai suoi figli, che porterà a mangiare al fast food.
I probabili motivi profondi dell’infelicità della vera Diana restano non detti (l’abbandono da parte della madre quando era piccolissima) o appena accennati (l’amore del marito per Camilla Parker-Bowles); tutto sembra davvero ridursi a un desiderio di essere “come la gente normale”, espressione che ritorna più volte nel film. Sono passati settant’anni da Vacanze romane (William Wyler, 1953), evidentemente invano, se ancora ci piace farci raccontare di quanto siano infelici i ricchi e nobili nei loro castelli, molto meglio essere un anonimo membro della società dei consumi, libero di andarsene in giro col vento tra i capelli (vespa ieri, decappottabile oggi) a mangiare cibo per asporto (gelato ieri, pollo fritto oggi). Forse la sola cosa degna di nota è che morali del genere una volta si enunciavano in commedie rosa, mentre oggi in truci drammi da camera, a dimostrazione di quanto ci siamo incupiti. E se Vacanze romane finisce con un ragionevole ritorno all’ordine nel proprio ruolo e una ri-assunzione di responsabilità, molto anni Cinquanta, Spencer termina con la celebrazione dell’arte della fuga, più consona alle eterne adolescenze a cui oggi tutti siamo incoraggiati ad aspirare.