Regia: Alessio Rigo De Righis, Matteo Zoppis
Sceneggiatura: Alessio Rigo De Righis, Matteo Zoppis
Cast: Gabriele Silli, Maria Alexandra Longiu, Mariano Arce, Enzo Cucchi, Claudio Castori, Domenico Chiozzi, Jorge Prado
Fotografia: Simone D’Arcangelo
Montaggio: Andrés Pepe Estrada
Musiche: Vittorio Giampietro
Italia/Argentina/Francia, 2021, storico/avventura, 105 minuti
Presentato nel fuori concorso della recentissima 39° edizione del Torino Film Festival e dal 2 dicembre in poche e fortunate sale, Re granchio è l’esordio nella finzione della coppia di registi Alessio Rigo de Righis e Matteo Zoppis, già autori di due documentari (Belva nera nel 2013 e Il solengo nel 2015) che con questo film sono imparentati per tematiche e ambientazioni ‒ la Tuscia ‒, oltre che per la riflessione sul senso delle narrazioni e dei racconti e su come sia labile la nettezza delle realtà rappresentate.
Re granchio parte dai racconti d’osteria, dalle piccole topografie mitologiche popolari in cui «stai a vedere cosa è vero e cosa è falso», e arriva ai grandi spazi delle avventure altrettanto leggendarie presenti nelle cronache e nelle mitologie di frontiera. Dopo un prologo contemporaneo dove appunto vediamo cacciatori raccontarsi storie e leggende di una volta, i due episodi del film ‒ il primo ambientato nella Tuscia del XIX secolo e il secondo nella coeva Terra del Fuoco ancora da esplorare e scoprire ‒ sono legati tra loro dalla figura di un ubriacone anarchico costretto a fuggire oltreoceano dopo un involontario crimine nato un po’ dall’amore e un po’ dalla rabbia (una figura realmente esistita, per quanto dai contorni mutevoli a seconda delle varie versioni della sua storia). I due segmenti costituiscono una continua riflessione sulla memoria e sul suo legame con i territori, sul racconto e le sue rielaborazioni, sulla Storia con la esse maiuscola e sulle storie con le esse minuscole, e sul loro rapporto.
Re granchio ha quindi le stigmate della fiaba, che sia quella scellerata della prima parte o quella avventurosa della seconda, e la concretezza di certo cinema del reale; possiamo dire che è una versione allo stesso tempo più colta e più “popolana” di certo cinema alla Pietro Marcello (Bella e perduta) e Alice Rohrawacher (Le meraviglie e Lazzaro Felice). Spesso ha le atmosfere dell’altrove leggendario o folkloristico in cui il reale, il probabile, il mitologico e l’inventato si annodano fino a confondersi e contemporaneamente esprime, soprattutto nella prima parte, la materialità dei corpi, dei luoghi e dei volti “veri”, o perlomeno verosimili.
Rigo de Righis e Zoppis plasmano questa materia complessa innanzitutto affidandosi a un’assoluta “pulizia” e “semplicità” del racconto e del suo procedere, come in una storia ricordata e raccontata davanti a cibo e vino. A rafforzare questa pulizia della narrazione, e a sottolineare i sensi e le domande più profonde che il film offre, intervengono le costanti, ma sempre controllate e sensate ‒ a parte qualche momento nella seconda parte ambientata nella Terra del Fuoco ‒ magniloquenza stilistica e potenza visiva, che quasi mai diventano formalismo e che, appunto, non intralciano la fruibilità più “classica” della vicenda. Anche per questo l’esordio nella finzione della coppia di registi è un gioiello di non comune forza e fascino, non così frequenti nel cinema italiano recente, che si smarca anche dai modelli cinematografici di cui si nutre.
Re granchio è un film che si può anche respingere, ma che difficilmente può lasciare indifferenti, dove gli echi della novellistica ruspante di Pasolini (La sua versione del Decamerone in particolare) e Sergio Citti (Storie scellerate) e del verismo poetico rurale e popolare di Ermanno Olmi, dominanti nella prima parte, convivono con la mitologia degli spazi, dei luoghi e della storia di autori come il Paul Thomas Anderson de Il petroliere nel secondo capitolo.