“Marylin ha gli occhi neri” è come dire “Nessuno è perfetto”, citando la battuta finale di un grande film di Billy Wilder, A qualcuno piace caldo, che vede protagonista proprio la Monroe. E il tema centrale del film di Simone Godano è proprio il confronto con un modello irraggiungibile che è all’origine della nevrosi e dell’infelicità non solo dei protagonisti ma anche, spesso e volentieri, di noi spettatori. Questa scelta registica fa sì che, nonostante il luogo dell’azione sia un centro diurno di salute mentale, non si affaccino mai né la pietà né la polemica civile, visto che non gli interessa tanto il luogo in sé quanto le dinamiche psicologiche che condizionano la vita delle persone, lì come altrove.
Stefano Accorsi è Diego, un cuoco maniaco del controllo che sbrocca e distrugge la sala colazioni dell’hotel in cui lavora, restando quindi disoccupato ed essendo anche costretto a frequentare il centro per sottoporsi a una terapia. Qui conosce, tra gli altri pazienti, Clara (Miriam Leone), che fa di tutto per sembrare capitata lì per caso, apparentemente vittima di un errore giudiziario.
Il racconto si snoda in toni da commedia e potrebbe sfociare in una classica storia di antieroi che si riscattano unendo le forze per un’impresa comune, se non fosse che la sceneggiatrice Giulia Steigerwalt, insieme al regista, si è documentata troppo scrupolosamente sul campo per non sapere che la propria parte buia non scompare mai, si può solo imparare a conviverci e a non vergognarsi di mostrarla agli altri, mettendo da parte l’orgoglio per accettare di essere aiutati.
Come si diceva all’inizio, il tratto comune dei personaggi è la paura di non essere accettati perché non all’altezza di uno standard fissato da loro stessi prima e più ancora che dalle aspettative altrui. Diego teme di essere dimenticato dalla figlia perché pensa di non essere un padre abbastanza bravo, essendo stato lasciato dalla moglie e sostituito da un altro uomo, e reagisce a questa paura con scatti di rabbia che non riesce a controllare. L’altro, dice lui, ha occupato il suo letto, la sua casa, la sua famiglia. L’altro è tutto ciò che lui non è riuscito a essere, è il sé stesso che ce l’ha fatta, a fronte del sé stesso che ha fallito e vive la vita al posto suo, mentre Diego non riesce neppure a immaginarsene un’altra.
Clara, invece, sceglie la fuga nell’irrealtà: per essere “vista” dal marito, si inventa una (inesistente) carriera da attrice teatrale e resta invischiata nella sua rete di bugie, che diventano una corazza protettiva che non può più abbandonare. Nella costruzione di questo falso sé si aggrappa anche alla convinzione di assomigliare a Marylin Monroe (alla quale ovviamente la pur bellissima Miriam Leone non assomiglia affatto!), perché tanto aveva gli occhi neri come lei, anche se pochi lo sanno.
Diego e Clara vivono in modo estremo quello che capita a tutti noi, ci suggerisce Godano: rifiutare e nascondere le nostre ambivalenze per conformarci a un “dover essere” che crediamo ci garantisca di essere accettati.
Questa modalità comporta, tra gli altri, un rischio molto grande: proiettare il negativo sugli altri, sfogando su di loro l’odio per ciò che non accettiamo di noi stessi. Questa scissione che arriva fino allo sdoppiamento è apertamente enunciata nel film dal personaggio di Sosia, che crede che in Italia ci sia la versione “sbagliata” delle persone, mentre quella giusta e felice è in Papuasia.
Ma Godano ci presenta anche un personaggio che è uscito da questa dinamica, lo psicoterapeuta interpretato da Thomas Trabacchi. Nel raccontare a Clara, che ha appena combinato un disastro dalle gravi conseguenze, il suo passato di ragazzo problematico e tossicodipendente, conclude: «Sai perché nonostante tutto mi sei simpatica? Perché dentro di me, da qualche parte, c’è ancora quel ragazzino». L’empatia verso gli altri passa, prima di tutto, dall’accettazione di sé stessi.
Una lezione non da poco per una commedia molto divertente, ben scritta e splendidamente recitata.