Martone / Non ci resta che ridere

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Martone Qui rido

 

 

Qui rido io, ultimo film di Mario Martone scandalosamente ignorato dalla giuria della Mostra di Venezia, è dedicato alla tarda maturità del commediografo e attore napoletano Eduardo Scarpetta (1853-1925), concentrandosi in particolare da un lato sull’episodio del processo per plagio per la sua parodia del dramma dannunziano La figlia di Iorio(1904), dall’altro sul menage delle sue tre famiglie: quella legittima, con la moglie Rosa, più altre due con le amanti simultaneamente in carica (che erano anche, incidentalmente, la sorellastra e la nipote della moglie), ciascuna con prole per un totale di 9 figli, tra i quali, illegittimi e mai riconosciuti, i fratelli Titina, Eduardo e Peppino De Filippo. Si tratta di un’opera così compatta e smagliante per sceneggiatura, interpretazioni, fotografia, scene e costumi che lo spettatore rischia di abbandonarsi completamente al piacere della visione, perdendone di vista il senso. Un senso che invece merita più di una riflessione.

Come spesso accade nel suo cinema, Martone rappresenta personaggi profondamente radicati nella società del loro tempo, anche se in questo caso la chiave di lettura storica appare meno evidente.C’è però un importante indizio che assume un valore simbolico: si tratta della maschera plebea di Pulcinella. Scarpetta aveva lavorato a lungo con Antonio Petito (1822-1876), lo storico pulcinella del teatro San Carlino, per poi abbandonarlo e soppiantarne la maschera inventando il carattere piccolo-borghese di Felice Sciosciammocca, lo scrivano pubblico protagonista di Miseria e nobiltà e di varie altre opere, che incontrarono un enorme successo di pubblico. E infatti nel film Scarpetta si vanta di aver ucciso Pulcinella.

Lo Scarpetta di Martone, dunque, così come Sciosciammocca, è espressione di un tempo nuovo, ma com’è questo tempo? Lo scopriamo all’inizio del film, che si apre alla cassa del suo teatro, all’ennesimo sold out, per proseguire nel retropalco, dove si contano i soldi dell’incasso, e poi in camerino, dove il commediografo si prepara con ritmi lenti a entrare in scena, truccandosi e mangiando una pizza. Il regista ci porta poi a vedere cosa avviene sulla scena, dove si rappresenta proprio Miseria e nobiltà, e anche lì si parla di soldi e di cibo, fino alla scena famosa dell’assalto al piatto di spaghetti, che qualunque spettatore cinematografico ha ben presente nell’interpretazione di Totò (1954), per la regia di Mario Mattoli. E soldi e cibo tornano in tutto il film a caratterizzare la vita di Scarpetta, nei ricchissimi e ridondantiarredi delle sue case, nel via vai di cibo dalla cucina della casa familiare a quella dell’amante Luisa, nei sontuosi pranzi festivi in cui il clan incestuoso si riunisce a demolire montagne di sartù, babà e sfogliatelle. Quella che viene messa in scena, dunque, da Martone, è una società dell’accumulo e della moltiplicazione: di soldi, di oggetti, di cibo e anche di persone (le donne, i figli). È infatti giunta l’era della borghesia: nel sud borbonico l’unità d’Italia ha significato anche passare da un mondo in cui erano ancora preponderanti l’aristocrazia e la plebe ad un altro di rapida ascesa della borghesia, con un ritardo secolare rispetto ai luoghi più avanzati dell’Europa;di questo fenomeno Scarpetta è al tempo stesso parte nella vita e interprete sulla scena, con il suo alter ego Sciosciammocca.E il passaggio dai Borbone ai Savoia come occasione di ascesa sociale è esplicitato in un dialogo del film: la moglie ricorda a Scarpetta che gli ha fatto comodo riconoscere come figlio suo Domenico, che lei aveva concepito con Vittorio Emanuele II, perché questo “sacrificio” è stato ripagato con una grossa somma che gli ha permesso di aprire un proprio teatro. È l’affermazione di una nuova morale, che Giuseppe Tomasi di Lampedusa riassume in una famosa battuta messa in bocca al principe di Salina: «Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene».

Scarpetta

Ma se l’accumulo può teoricamente espandersi all’infinito, almeno secondo le leggi dell’economia capitalistica, nella vita umana arriva prima o poi il momento discendente della parabola. Scarpetta lo vive con il primo insuccesso, cioè Il figlio di Iorio fischiato, la rappresentazione interrotta, addirittura un processo. E l’ironia della sorte è che la sua pietra d’inciampo è proprio un altro, un po’ più giovane, accumulatore (e dilapidatore) seriale di oggetti, donne, versi, soldi, cioè Gabriele D’Annunzio, che però sa rivestire tutto questo col nome sublime e sublimante dell’arte, rispetto all’umorismo greve di Scarpetta (che nella sua parodia del dramma dannunziano sostituisce la battuta «la fiamma è bella» con «la fava è bella»).

Martone pedina il suo personaggio, che sente prossimo il declino, in una passeggiata notturna per Napoli, fino a seguirlo quando entra nel suo teatro deserto. Qui Scarpetta vede steso sul palcoscenico il cadavere di Pulcinella, ma poi, nel togliergli la maschera, scoprecon orrore il suo stesso volto.E questa visione sarà interrotta dall’irruzione di due uomini che gli annunciano che il suo ultimo figlio è appena nato morto. Basta figli, basta successo. Il ciclo creativo del padre e del drammaturgo si è inceppato, ma in un sistema condannato ad espandersi all’infinito il contrario può essere rappresentato solo dalla morte. E proprio questo gli rivela il suo primogenito, Vincenzo, che rivendica il desiderio di mettere in scena le proprie opere, anziché recitare esclusivamente in quelle del padre. Quando quest’ultimo lo accusa di non essere nessuno, gli risponde: «Io non sono nessuno, ma tu sei morto e io invece sono vivo!».

Cos’è dunque Pulcinella? La maschera di un mondo defunto, quello borbonico? Il ciclo della vita che crea dalla distruzione per poi nuovamente distruggere e ricreare all’infinito? Il redde rationem che ci aspetta tutti, come sembra suggerire il suo costume spettrale?

Sia quel che sia, Pulcinella è il protagonista della locandina del film, ma in un’immagine che nel film non c’è. Toni Servillo/Eduardo Scarpetta, vestito da Pulcinella,ha un sigaro in bocca e il viso bianco di cerone, tranne che dove dovrebbe esserci la mezza maschera, che però non porta.Uno sguardo sornione, che sembra dare un senso di profonda consapevolezza filosofica a quel “Qui rido io”, che nella realtà era solo il motto scritto all’ingresso della villa di Scarpetta, a indicare le gioie private. E allora qui Pulcinella sembra rappresentare la via di fuga dal mondo e dalla storia, come scrive Giorgio Agamben: «Pulcinella non recita in un dramma, lo ha già sempre interrotto, ne è sempre già uscito, per una scorciatoia o una via traversa. Egli è pura parabasi: uscita dalla scena, dalla storia, dalla fatua, inconsistente vicenda in cui si vorrebbe implicarlo. Nella vita degli uomini – questo è il suo insegnamento – la sola cosa importante è trovare una via d’uscita». Questa locandina, dunque, trascende la figura di Scarpetta per celebrare invece il teatro tout court come via di fuga e come forma di libertà, perché, come dice nel film il piccolo Eduardo De Filippo al fratello Peppino, che odia il padre e si rifiuta di recitare: «tu vuoi scappare per essere libero, vero? Allora sali su quel palcoscenico, perché solo lì c’è la nostra libertà».Ed è questa l’unica morale che Martone, grande uomo di teatro, sente di poterci consegnare.

Gli autori

Francesca Marcellan

Francesca Marcellan vive a Padova, lavora presso il Ministero della Cultura e scrive di arte, soprattutto nei suoi aspetti iconologici. Sulla scorta di Morando Morandini, va al cinema "per essere invasa dai film, non per evadere grazie ai film". E quando queste invasioni sono particolarmente proficue, le condivide scrivendone.

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