Regia: Nanni Moretti
Sceneggiatura: Nanni Moretti, Federica Pontremoli, Valia Santella
Cast: Riccardo Scamarcio, Margherita Buy, Alba Rohrwacher, Nanni Moretti, Adriano Giannini, Paolo Graziosi, Denise Tantucci, Elena Lietti, Alessandro Sperduti, Anna Bonaiuto
Fotografia: Michele D’Attanasio
Montaggio: Clelio Benevento
Musiche: Franco Piersanti
Italia, 2021, drammatico, 119 minuti
Tre piani di Nanni Moretti è ispirato all’omonimo romanzo dello scrittore israeliano Eshkol Nevo. È la prima volta quindi che il regista, abituato a parlare degli altri parlando principalmente di sé e a rendere collettive crisi, tensioni e ossessioni personali, affronta un soggetto non suo e una storia e personaggi creati da altri. La trasposizione del romanzo è assolutamente libera – su tutto, c’è il passaggio dalla Tel Aviv e dalla questione israelo-palestinese alla Roma borghese e benestante del quartiere Prati –, ma nella più immediata superficie il film potrebbe apparire poco o per niente morettiano. Anzi, a molti, come hanno testimoniato le numerose recensioni deluse o negative dal festival di Cannes, Nanni Moretti è sembrato a disagio in un film un po’ paludato e dallo stile anonimo e inerme, più vicino al dramma borghese chiuso tra quattro mura che al suo tipico cinema vitale e ricco di scarti che abbiamo imparato a conoscere nell’ultimo quarantennio.
Certamente Tre piani non è del tutto privo dei difetti che molti commentatori hanno appuntato. Nella sostanza, però, è un film complesso, lucido e stratificato che lavora sottotraccia e sottopelle e trasmette con potenza il senso e la cognizione del dolore e della solitudine. È un film cupissimo che in ciascuna delle tre storie raccontate avrebbe potuto tranquillamente prendere le strade dell’horror e che racconta la solitudine di personaggi incapaci di andare oltre l’egoreferenza e la propria visione delle cose, e per questo sordi e estranei al mondo: su tutti, il severo giudice interpretato dallo stesso Moretti e il padre spaventato interpretato da Riccardo Scamarcio.
Il condominio e i suoi tre piani in cui il film è in buona parte ambientato racchiudono e imprigionano quindi maschere, tutte benestanti e più o meno affermate, di una società assolutamente chiusa, sorda e cieca, incapace di porgersi agli altri tanto quanto di capirsi davvero in profondità. L’asciuttezza dello stile e la semplicità della narrazione, o delle recitazioni, quindi non sono un segno di resa del regista alla convenzionalità o a un cinema tanto più pulito quanto fuori dal tempo, ma la chiave per far emergere in maniera carsica ma assolutamente consapevole ed efficace l’attualità delle condizioni di fondo di cui i personaggi sono vittime e testimoni: in estrema sintesi, l’incapacità di comunicare e di andare oltre al sé. Problema certamente non inedito, ma allo stesso tempo sintomo tipico della contemporaneità, come l’atmosfera di fondo, mai in passato così torva, pare ribadire.
Questo, a ben vedere, era già il problema di fondo di cui era vittima, per esempio, il Don Giulio protagonista nel 1985 de La messa è finita, o la paura da cui era ossessionato Michele Apicella in Bianca (1984); così come Nanni Moretti ha sempre, per così dire, messo alla berlina i rischi di venire accecati dal proprio senso di appartenenza – dalla propria ideologia –, sottolineando nelle nevrosi e nelle crisi dei propri personaggi e delle persone che gli stavano attorno come potesse essere labile il confine tra la ricchezza di sguardo sul mondo che un senso di appartenenza e di ideale può fornire e l’effetto collaterale della cecità autoreferenziale. In Tre piani, significativamente, i personaggi che paiono più sordi, soli e ciechi verso gli altri, fondamentalmente incapaci di capire la complessità, sono anche coloro che partono da assunti e paure morali di per sé comprensibili o ineccepibili.
Il film è quindi, per così dire, poco morettiano nella narrazione e nell’apparenza ma lo è nella sostanza più profonda. Ci sono semmai in scena geografie di un cinema in evoluzione – mancano, tranne una significativa e liberatoria sequenza di ballo finale, le scene tipicamente alla Nanni Moretti e l’altrettanto tipica ironia lascia totalmente spazio al dolore e alla cupezza – che paiono suggerire un punto di arrivo con cui l’autore muta pelle senza tradire se stesso, alla ricerca di una nuova chiave con cui leggere la realtà, le sue nevrosi e le sue maschere sempre più sole e incapaci di comunicare e comunicarsi. Una nuova chiave che conferma la lucidità dell’autore nel cogliere gli aspetti più problematici dell’intimo trasformandoli in più complessi ritratti della collettività, e che si può cogliere uscendo dalle aspettative della comfort zone critica per cui un regista di 70 anni sembra obbligato a fare gli stessi film di quando ne aveva 30.
Il risultato, al netto delle imperfezioni e di qualche momento meno felice di altri, è – come detto – potente, stratificato e soprattutto capace di lavorare sottopelle. La cupa durezza di questo asciutto “horror mancato” che cresce e matura nei giorni dopo la visione lascia comunque spazio a qualche forma di speranza futura, di possibili chiavi di apertura al mondo, perché, come già diceva Michele Apicella nel finale di Bianca, «è triste morire senza figli».