«Cosa resta della rivoluzione»

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Insisto
nel ricercarti nel fuscello e mai
nell’albero spiegato, mai nel pieno, sempre
nel vuoto: in quello che anche al trapano
resiste.
Eugenio Montale, Ex voto

Cosa resta della rivoluzione, attualmente nelle nostre sale cinematografiche ma uscito con successo in Francia nel 2018, è il felice recupero dell’opera prima di Judith Davis, filosofa di formazione e parte di un collettivo teatrale, “L’Avantage du doute”, che, con Claire Dumas, Mélanie Bestel, Nadir Legrand e Simon Bakhouche, costituisce buona parte del cast. Concepito come luogo di azione politica – soprattutto sul tema del lavoro – questo collettivo lavora a partire da testimonianze reali, sottratte all’episodicità e casualità da un inquadramento teorico di studi di psicologia e sociologia del lavoro. Tra le sue stelle polari la regista cita inoltre L’obsolescenza dell’uomo di Günther Anders, il pensatore del dominio della tecnica, che ha sostituito l’uomo come nuovo soggetto della storia: «Il soggetto della libertà e quello della sottomissione si sono invertiti; le cose sono libere, ed è l’uomo a non esserlo più».

In questo orizzonte ideale va collocato e letto questo film che, fin dal titolo originale (Tout ce qu’il me reste de la révolution), si propone come un bilancio strettamente personale: quello che la giovane Angèle fa dell’eredità ricevuta dalla generazione precedente, all’interno di un milieu familiare e intellettuale tutto di sinistra. Con la parola “rivoluzione”, dunque, si intende in realtà il maggio francese e un patrimonio di desiderio di cambiamento radicale che aveva coinvolto una parte importante, anche quantitativamente, della gioventù e della società francese. Il bilancio generale di quella stagione, come ormai sappiamo tutti, in Francia come in Italia vede sulla colonna dell’avere soprattutto “libertà e perline colorate”, visto che le conquiste strutturali fatte, essendo semplici riforme e non effetti di una vera rivoluzione, sono state e continuano a essere lentamente erose, a colpi di piccole ma inesorabili controriforme nel mondo del lavoro, nel welfare, nella scuola.

Questo fallimentare bilancio generale viene affrontato e liquidato già dalla prima scena: la ragazza, che ha scelto di fare l’architetto urbanista per «migliorare la vita della gente cambiando i luoghi in cui vive», viene licenziata dal suo capo (anche suo ex professore ed ex sessantottino), per essere sostituita da una stagista disposta a lavorare gratis. Alla marea di chiacchiere ipocrite che le vengono ammannite durante il colloquio per indorare la pillola, Angèle si ribella, rinfacciando al suo capo di far parte di una generazione di “orchi”, che si è mangiata la generazione successiva per conservare il proprio potere, al tempo stesso proclamando ideali progressisti che si guarda bene dall’applicare nella realtà. Angèle conclude così la sua furiosa invettiva: «Continuate a progettare centri commerciali, per pagarvi la villa al mare!». La condanna di una sinistra che si è non solo venduta al mercato per così poco ma se ne è anche resa complice sembra riecheggiare una battuta fulminante di Orson Welles su quanto fosse triste che, al tempo del maccartismo, i cineasti di sinistra che avevano tradito l’avessero fatto, sostanzialmente, per salvaguardare le loro piscine.

Tutto quello che segue nel film è invece la ricerca personale della protagonista di una eredità positiva, un lascito del ’68 che permetta anche oggi di agire. Questa eredità non le arriva, però, neppure dai genitori (ex marxisti maoisti), che pure hanno conservato una loro coerenza, ma senza nessuna apertura al futuro, autocondannandosi alla marginalità e senza più nessuna voglia né velleità di cambiare il mondo: si accontentano di non essersi fatti troppo cambiare da quest’ultimo. Entrambi hanno accettato di «coltivare il proprio giardino» come il Candido di Voltaire; la madre in modo più evidente, trasferendosi addirittura in un buon ritiro in campagna.

Tutto quello che resta della “rivoluzione” è dunque, apparentemente, il nulla. Non resta nessun “pieno”, sia esso un partito o la deterministica fiducia della vulgata filosofica marxista, secondo la quale la rivoluzione doveva automaticamente, a un certo punto, prodursi. Resta però un grande vuoto, e da questo vuoto Angèle riparte. È il vuoto delle macerie che il capitalismo produce sempre di più, nella forma che oggi ha assunto: un mare popolato di tantissimi pesci piccoli, condannati in partenza a non essere altro che cibo per pochi grandi squali.

Quello che resta da fare alla ragazza è annunciare questa “cattiva novella” (del resto non si chiama Angèle?). Così, come una strana specie di missionaria, porta il suo annuncio nei territori selvaggi del capitalismo: entra in banca leggendo ad alta voce Walt Withman («Vi hanno detto che è bene vincere le battaglie? Io vi assicuro che è anche bene soccombere, che le battaglie sono perdute nello stesso spirito in cui vengono vinte. Io batto i tamburi per i morti, per loro imbocco le trombe, suono la marcia più sonora e più gaia. Gloria a quelli che sono caduti!» perché, dice Angèle, in questo sistema siamo tutti sconfitti); inscena per strada per i passanti una parodia di un centro per l’impiego; nella casa di design della sorella partecipa alla festa di compleanno del nipote creando crisi di nervi perché mette il dito nella piaga della loro vita tutta votata alla creazione di profitto, anziché fare la zietta amorevole. «Vi farò pescatori di uomini», diceva Gesù, e Angèle da ognuna delle sue sortite torna con un nuovo acquisto per il suo piccolo collettivo, che vediamo più volte riunito nel corso del film. Neppure il collettivo, però, è un luogo del pieno: si discute per lo più a vanvera e di questioni ininfluenti. Quando Angèle propone che ognuno dica una cosa in cui crede fermamente, tutti stanno zitti perché, come sottolinea la ragazza, appena abbiamo un’idea buona e giusta la scartiamo prima che arrivi alla bocca, abituati come siamo a considerarla naif e impraticabile, avendo ormai interiorizzato i criteri dell’utile e del profitto. A questi ultimi, invece, si contrappone il sacro, inteso come dignità e gratuità insita in ogni cosa, come dice una poesia di Allen Ginsberg recitata da un buffo maestro di scuola, innamorato della protagonista: «Ogni cosa è sacra! Ognuno è sacro! Ogni luogo è sacro! Ogni giorno è nell’eternità! Ogni uomo è un angelo!».

Tutto questo è poco? È tanto? Forse per misurarlo la regista ci dà un piccolo indizio: nel comporre il cast ha scelto un unico volto famoso, quello di Mireille Perrier. L’attrice viene così a costituire una sorta di ponte con il film di Eric Rochant che la rese famosa, Un mondo senza pietà (1989), un’altra opera prima com’è questa di Judy Davis. Rochant riassumeva così il senso del suo film: «Quanto più spietato è il mondo, tanto meno ci resta da fare oltre ad amare. Vale a dire farsi prendere, farsi sbattere, e aspettare come un fesso che il telefono suoni. E quando ci si fa piantare non si può neanche più annegare il dispiacere nella rivoluzione». In quegli anni di capitalismo trionfante, un antieroe come Hippo, il protagonista del film, poteva essere al massimo un asociale, neppure un antisociale: «non ha nessuna ideologia, non crede a nulla. La sua forza sta nella mancanza di ambizioni, il suo coraggio è la volontà di non desiderare niente» (sempre Rochant). Ed è proprio dal confronto ideale con l’abulia del personaggio di Rochant che misuriamo la fertilità del vuoto in cui si trova la generazione di Angèle. Anche se non resta nulla della rivoluzione, se l’eredità dei padri è stata tradita o dissipata, paradossalmente è proprio dall’espandersi del negativo di questo nostro mondo che nasce una nuova voglia di ribellarsi, prima di tutto alzando la testa e guardandolo dritto in faccia.

Ma la pars construens poi dove sta? Dov’è lo spazio di manovra perché questa ribellione diventi generale? A questa obiezione risponde la regista stessa: «Per me, la risposta non è nella sala cinematografica, ma nella realtà. Il film è un detonatore. Voglio combattere contro questa logica del messaggio consegnato alla fine della proiezione. Questo non produce alcun dubbio, nessun disagio per lo spettatore» (https://www.lesinrocks.com/2019/03/24/cinema/actualite-cinema/entretien-tres-politique-avec-judith-davis-realisatrice-de-tout-ce-quil-reste-de-la-revolution/, traduzione mia). Il vantaggio del dubbio, appunto, è il nome del collettivo teatrale di cui fa parte. Per sua stessa ammissione, dunque, il film è una riuscita raccolta di sintomi sul nostro presente più che un possibile piano d’azione per il futuro.

 

Post scriptum

Gli argomenti sfoderati dall’architetto gauchiste che licenzia Angèle sono pressoché identici a quelli snocciolati recentemente da Michele Serra, sul Venerdì di Repubblica, in risposta a un lettore che lo sollecitava sul tema. Nel dibattito che ne è sorto, una risposta simile per lucidità e ironia a quella della protagonista del film si può leggere al link https://www.lintellettualedissidente.it/controcultura/societa/effetto-michele-serra/

Gli autori

Francesca Marcellan

Francesca Marcellan vive a Padova, lavora presso il Ministero della Cultura e scrive di arte, soprattutto nei suoi aspetti iconologici. Sulla scorta di Morando Morandini, va al cinema "per essere invasa dai film, non per evadere grazie ai film". E quando queste invasioni sono particolarmente proficue, le condivide scrivendone.

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