Oltre i luoghi comuni. Sicilia e Veneto nel cinema di Pietro Germi

image_pdfimage_print

In questa primavera il Coronavirus ha resuscitato barriere medioevali, anzi peggiori poiché il limite non è neppure quello delle mura cittadine, bensì dei quartieri o addirittura nella famigerata cerchia dei 200 metri. Queste angustie in cui ci siamo trovati ristretti, guardati a vista dalle forze dell’ordine, ha trovato eco nella stampa in una contrapposizione dialettica tra regioni e Governo centrale. Nonostante le bandiere tricolori esposte alle finestre, abbiamo fatto i conti con le variegate ordinanze locali, come se fossimo tornati improvvisamente indietro di 160 anni, quando l’Italia era un’espressione geografica e, allora come oggi, progettare un viaggio da Venezia a Modena significava porsi il problema della possibilità o meno di valicare un confine.

Sulle rivalità regionali ha proliferato ancora una volta il genere giornalistico del luogo-comunismo, a base di superiorità economiche lombarde, indisciplinatezze napoletane, rigorose obbedienze venete di asburgica memoria e chi più ne ha più ne metta.

Per chi invece avesse voglia di un viaggio in Italia oltre i luoghi comuni, consigliamo la spregiudicata lucidità del cinema di Pietro Germi (Genova, 1914 – Roma, 1974), un italiano atipico molto poco accomodante prima di tutto con sé stesso (l’opposto di un Fellini, per intenderci), autore di film che Truffaut, quando ancora scriveva sui Cahiers du cinéma, definì «solidi come paracarri». Adorato da Billy Wilder, che riconosceva in lui un fratello cinematografico, portò nella commedia all’italiana la cifra della deformazione grottesca, in una trilogia di capolavori che nell’arco di soli cinque anni viaggiò da un capo all’altro dello stivale.

Con Divorzio all’italiana (1961, premio Oscar per la sceneggiatura) e Sedotta e abbandonata (1963), Germi raccontava una Sicilia in cui «una società intera continua a perpetrare la barbarie dei propri costumi» (Mario Sesti). Il delitto d’onore raccontato nel primo film e il matrimonio riparatore nel secondo erano visti come due relitti giuridici e morali che testimoniavano, come parte per il tutto, un’arretratezza ben più generale. Esemplare è l’inizio di Divorzio all’italiana, in cui la voce narrante del protagonista, il barone Cefalù (Marcello Mastroianni), tratteggia con poche pennellate tutto un mondo: «Agramonte: diciottomila abitanti, quattromila e trecento analfabeti, mille e settecento disoccupati tra fissi e fluttuanti. Ventiquattro chiese, tra le quali si annoverano alcuni notevoli esemplari barocchi del tardo Seicento. Questo è palazzo Cefalù e questo è lo stemma dei miei avi, l’unica cosa o quasi che mio padre non si fosse ancora venduto». L’analfabetismo, la disoccupazione, un certo tipo di retaggio religioso, un’aristocrazia improduttiva che ancora non si è estinta sono tra le cause di quello che andremo a vedere nel corso del film, che quindi assume un valore paradigmatico, seppure in forma comica. Qual è il contraltare di questa arretratezza? Continuiamo a seguire la voce narrante, mentre la macchina da presa fa uno zoom sul simbolo del PCI, per poi mostrarci all’interno della sezione del partito un ballo tra coppie di soli uomini: «Agramonte proletario, invece, procedeva gloriosamente sulla via del progresso. Un progresso un po’ lento, forse. Ma alle spregiudicate trombe proletarie rispondevano altrettanto sonore le campane di San Firmino». Segue quindi la visione dell’interno della chiesa, con l’omelia del parroco: «Vi esorto a dare il vostro suffragio a un partito che sia democratico e cristiano!».

Il punto di vista di Germi, dunque, non è affatto qualunquista, ma al contrario immergendosi in un contesto storicamente determinato mostra come, posti determinati fattori, non si può che ricavarne un certo prodotto. La colpa non è tanto del singolo individuo, quanto di una società che condivide una serie di premesse materiali e ideali. Solo modificando queste ultime può realizzarsi un vero cambiamento. Ma attenzione, il cambiamento non è di per sé positivo, ci dice Germi con l’ultimo film della trilogia, quel Signore e signori (1965, palma d’oro a Cannes) ambientato nel profondo Veneto. Qui il contesto pare ben diverso, civile e operoso. Niente fatti di sangue. Una società pacifica composta da stimati industriali e seri professionisti. Tra i protagonisti troviamo infatti un ampio repertorio di professioni borghesi: un bancario, un medico, un farmacista, un imprenditore, un architetto ecc. Anche in questo film le vicende ruotano intorno alla morale sessuale, ma con modalità che la critica dell’epoca stigmatizzò come boccaccesche. Si tratta infatti di una storia corale scandita in tre diverse “novelle”: una storia di corna sotto forma di beffa; un amore sincero ma adulterino e interclassista, stroncato dalle pressioni sociali; una contadina minorenne abusata dagli «apprezzati professionisti», che non troverà giustizia perché il suo stesso padre ritira la denuncia dietro congruo compenso.

Alla morale arcaica della Sicilia non si sostituisce una morale più autentica, ma semplicemente un più alto grado di ipocrisia: «anche in questa società gli schiaffi e le urla, le scenate isteriche e le lusinghe, i marescialli e i magistrati, finiscono per gestire i segni di vita, dominare la comunicazione e arbitrare i conflitti: con l’unica variante che qui la disponibilità del denaro è in grado di mediare e ricucire le trasgressioni con un potere che alle comunità di Divorzio all’italiana e Sedotta e abbandonata è ancora sconosciuto. Ma che anche le vittime siano soggette alla corruzione, come nell’ultimo episodio, e che questo possa essere annoverato tra gli effetti di una ricchezza diffusa di una società industriale, è proprio ciò che rende il sarcasmo di Germi ancor più feroce» (1). Il lavoro di per sé non è garanzia di sviluppo di una società se è votato solo all’accumulo del denaro, nuovo Dio che la Chiesa tollera pensando di servirsene, senza rendersi conto che esso ha trasformato il suo magistero in un guscio vuoto. In questo senso esemplare è il personaggio di Ippolita (Olga Villi), implacabile patronessa di iniziative benefiche, terrore dei ricchi amici ai quali spilla continuamente denaro. La donna, che si trascina al seguito il molle don Schiavon come una sorta di lacchè (nomen omen), agisce nel film come vero e proprio deus ex machina, ricostruendo l’ordine familiare e sociale infranto nel secondo e nel terzo episodio. Lo fa sia muovendo a proprio piacimento le autorità civili ed ecclesiastiche, sia utilizzando lo strumento della corruzione, tramite il denaro o, addirittura, il proprio corpo.

Sotto l’occhio di Germi il Veneto, dunque, è ben lungi dall’essere la punta avanzata della società italiana che possa permettersi di dare lezioni all’arretrata Sicilia, nonostante proprio così si considerasse (e sia spesso tentato tuttora di considerarsi, insieme ad altre regioni del nord). Per il regista vi è infatti un problema di base che accomuna gli italiani, cioè le forme delle relazioni tra individui.

A Sud o a Nord, Germi racconta i suoi personaggi ugualmente divisi tra un “dentro” della casa, che ha la funzione di celare agli occhi del mondo i rapporti tra i familiari ed è quindi fondamentalmente più repressivo che protettivo, e un “fuori” in cui l’individuo è al tempo stesso attore e pubblico di una rappresentazione collettiva, sacra o profana poco importa, visto che sono identiche le dinamiche, si tratti della messa, del rito dello “struscio” sul corso principale, del teatro, del cinema, di una festa o di un locale notturno. Al di fuori di queste due dimensioni l’individuo è solo e condannato a restare così, perché famiglia e comunità sono totalizzanti e non tollerano l’esistenza di altre forme di relazione, avvertite come una minaccia al loro ordine.

Si tratta di un problema che era stato già individuato da Leopardi nel suo Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani (1824): la mancanza in Italia di una vera società, intesa come forma attraverso la quale si realizzi compiutamente l’umanità in uno scambio reciproco non limitato alla realizzazione dei bisogni primari. Leopardi ci dà una descrizione uguale a quella di Germi: «Ora il passeggio, gli spettacoli e le Chiese sono le principali occasioni di società che hanno gl’italiani, e in essi consiste, si può dire, tutta la loro società (parlando indipendentemente da quella che spetta ai bisogni di prima necessità)» (2). Anche la parola non è strumento di scambio e costruzione di rapporti, quanto di demolizione: «per tutto si ride, e questa è la principale fonte delle conversazioni. […] Gl’italiani posseggono l’arte di perseguitarsi scambievolmente e di se pousser à bout (provocarsi) colle parole, più che alcun’altra nazione» (3). Esattamente come nella trilogia di Germi, in cui la parola è degradata a chiacchiera come strumento di denigrazione, spesso sussurrata in un orecchio o affidata a una lettera anonima. Quest’ultima modalità è presente in modo ossessivo, immagine perfetta della spersonalizzazione del linguaggio, che da forma di comunicazione tra pari diventa invece espressione di un giudizio collettivo, di nessuno e quindi di tutti.

Ed è forse ancora nelle parole di Leopardi che troviamo la causa prima per cui la commedia all’italiana è stata forse la forma più compiuta di rappresentazione della vita nazionale: «continuare in una vita che si disprezza, convivere e conversar con uomini che si conoscono per tristi e da nulla – il più savio partito è quello di ridere indistintamente e abitualmente d’ogni cosa e d’ognuno cominciando da se medesimo. […] Gl’italiani ridono della vita: ne ridono assai più, e con più verità e persuasione intima di disprezzo e freddezza che non fa niun’altra nazione» (4). L’arte, però, fa un passo in più, e con Germi (ma anche con Risi, Monicelli, Scola…) questo ridere diventa riflessione, offrendo agli italiani uno specchio per vedere sé stessi. E cambiarsi, magari.

NOTE

* Divorzio all’italiana e Sedotta e abbandonata sono disponibili su Raiplay, mentre Signore e Signori  si trova su Youtube nella versione restaurata nel 1998.
1. M. Sesti, Tutto il cinema di Pietro Germi, Milano, Baldini&Castoldi, 1997, p. 254.
2. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani, Milano, Feltrinelli, 1991, p. 49.
3. ivi, pp. 58-59.
4. ivi, pp. 57-58

Gli autori

Francesca Marcellan

Francesca Marcellan vive a Padova, lavora presso il Ministero della Cultura e scrive di arte, soprattutto nei suoi aspetti iconologici. Sulla scorta di Morando Morandini, va al cinema "per essere invasa dai film, non per evadere grazie ai film". E quando queste invasioni sono particolarmente proficue, le condivide scrivendone.

Guarda gli altri post di: