Sergio Citti è ricordato soprattutto per essere stato il “Virgilio” che ha accompagnato Pier Paolo Pasolini alla scoperta delle borgate romane, della loro cultura e dei loro personaggi, e per essere stato consulente e collaboratore dell’intellettuale friulano per i romanzi e i film che raccontavano le vite violente dei sottoproletari della capitale. Meno conosciuta è la sua attività di regista.
Il Sergio Citti regista era in qualche modo alieno al panorama del cinema italiano, pur pescando e rielaborando canoni radicati e strade battute, a partire ovviamente da quelle tracciate da Pier Paolo Pasolini, che echeggiano in particolare nel formidabile esordio Ostia (1970), da poco disponibile su You Tube nel canale Films & Clips della Minerva, o su Prime Video, o nel novellistico Storie scellerate (1973), pure lui disponibile su YouTube. Oppure, manipolando le caratteristiche della tarda e terminale commedia all’italiana nel cinico e sarcastico Casotto (1978), dove, tra le quattro mura di una cabina da spiaggia, una varia fauna umana esprime cattiveria, sofferenza e ingenuità.
Il suo cinema è caratterizzato da una certa sottile e favolistica astrazione. L’impressione è quella di assistere a strane fiabe, nere nella sostanza e con la superficie dai colori torridi e roventi tipici dei paesaggi dove spesso le vicende sono ambientate: cupe, violente e pessimiste tanto quanto pregne di una strana tenerezza nei confronti dei personaggi e attraversate, in alcuni casi più di altri, da un umorismo ruspante e carnevalesco che rende il pessimismo di fondo ridanciano e giocoso (elemento questo, del resto, molto romanesco).
Storie scellerate, per esempio, concluso da una sonora risata contagiosa e sconsolata, è una raccolta di novelle ambientate nel ‘500 tra la Roma papalina e l’Agro romano, ispirata al modello del Decamerone di Pasolini. Sono racconti all’insegna dei coltelli, delle beffe, del sesso, dei tradimenti, delle vendette e della morte, contemporaneamente più cupi e più divertenti – proprio grazie a quell’ilarità nichilista a cui accennavamo – di quelli raccontati dal “fratello” pasoliniano. Il sesso non è, per esempio, fonte di gioia e salvezza, ma è fonte di morte. Del resto, molto spesso i personaggi raccontati da Citti sono in qualche modo estranei e distaccati dalla realtà che li circonda, compresa quella dei bisogni e dei desideri; vivono in qualche modo in un loro altrove, innanzitutto interiore e nell’essenza assolutamente puro e quasi infantile, e l’accettazione di bisogni, comportamenti e desideri nel bene e nel male comuni spesso si connota come una resa e scatena la tragedia. Sono, i suoi, personaggi fuori sincrono rispetto alla storia e al contesto, anche quando sembrerebbero farne parte; o ultimi testimoni di una civiltà scomparsa che sopravvive solo come un simulacro nella più apparente evidenza esteriore, più contadina e rurale che operaia e cittadina, o persone che non vogliono né possono adeguarsi. Si veda, per esempio, la saga in quattro puntate de Il minestrone (1980), visibile su Rai Play. La vena più o meno carsica di umorismo grottesco, sconsolato e nonostante tutto vitale, dà l’idea di una rielaborazione sottilmente carnevalesca, soprattutto se del carnevale consideriamo la sua essenza originaria di capovolgimento della realtà dai connotati anche amari; e, appunto, della strana fiaba nera. O di una condizione esistenziale vissuta come continuazione dell’infanzia.
Significativo di molti punti della poetica di Sergio Citti è il suo capolavoro, Ostia, con cui nel 1970 esordì dietro la macchina da presa. Questo nonostante sia il suo film di più chiara derivazione pasoliniana, evidente già nella faccia del protagonista Franco Citti, fratello dell’autore e insieme a Ninetto Davoli volto pasoliniano per eccellenza, oltre che nell’ambientazione del sottobosco sottoproletario romano. Citti però rielabora i suggerimenti del maestro in maniera personale e punta all’astrazione, ricordando semmai sotto certi punti di vista più i colorati e fantasiosi cortometraggi del regista friulano che film come Accattone o Mamma Roma.
La vicenda di due fratelli, attratti da un’inconscia e sottile attrazione omosessuale, viene raccontata con una narrazione frammentata, composta da flashback paradossali e tragicamente grotteschi (lo snodo decisivo della loro infanzia) e da parentesi vicine al burlesque (il ballo con le parrucche) e alla pantomima (le azioni mimate dall’amico dei protagonisti a inizio film). Lo stile visivo, tra riferimenti pittorici (una grottesca e popolana ultima cena ed echi di De Chirico) e l’uso significativo degli ambienti e delle scenografie di quel luogo tra la fine della città e l’inizio della campagna, così come la colonna sonora divisa tra sonorità sacre e austere e marcette popolari e allegre, aumentano la sensazione di una certa astrazione di fondo.
Come in una strana fiaba, anche Monica, personaggio decisivo, appare misteriosamente. È lei, fino ad un certo punto del film come una sorella che condivide la condizione sospesa tra realtà dura e sconsolata e favolistica fraternità quasi infantile in cui i due protagonisti paiono rifugiarsi, a rompere l’equilibrio, causando quel richiamo dei bisogni e dei desideri della contingenza più tetra che apre le porte alla tragedia.
Fino a quel momento, i due fratelli sono in qualche modo come bambini di fronte alla storia e al contesto, da cui, in un certo senso, sono estranei pur facendone parte. Anche gli eventi più drammatici e duri del loro passato sono in qualche modo visti e rielaborati come giochi, o come novelle da ricordare e raccontare. La continuazione di questa strana infanzia pare essere l’unica ancora di salvezza, dato che per cambiare la loro condizione di reperti di una civiltà che svanisce (quella della pre-massificazione e dell’omologazione consumistica, per tornare a Pasolini) ai due fratelli non è servita l’appartenenza anarchica ereditata dal padre, così come c’è stata l’incapacità e la fatica di adeguarsi davvero agli “stili di vita” dei loro amici e compari (le sequenze iniziali del film). Inoltre, la religione è pura e usurata consuetudine priva di reali significati interiori (le confessioni in carcere), e anche i sentimenti, data l’attrazione inconscia di partenza impossibile da realizzare, non hanno certo un ruolo salvifico. La radicata civiltà dei consumi appare, invece, solamente come eco nell’epilogo, quando la spiaggia di Ostia si riempie di villeggianti, contrapposta, e disinteressata, alla situazione dei due fratelli. La soggettiva finale quindi, che dal largo osserva l’invasione del cemento e dei palazzoni sul lungomare, pare proprio l’amara constatazione di una sconfitta non solo intima e interiore, ma anche, per così dire, “antropologica” di una civiltà che non esiste più. Un passaggio all’età e alle consapevolezze adulte che hanno i colori della sconfitta e della fine.
Ostia, per concludere, esprime tutto il pessimismo e la vitalità disilluse, ridanciane, popolari, grottesche, carnevalesche e amare dell’autore. Pessimismo e vitalità che si uniscono, dando vita ad un’astratta ricognizione più antropologica che storica e realistica, capace di tratteggiare con precisione il contesto tanto quanto di andare oltre.