REGIA: Sam Mendes
CAST: George McKay, Dean-Charles Chapman, Mark Strong, Richard Madden, Colin Firth, Benedict Cumberbatch
SCENEGGIATURA: Sam Mendes, Krysty Wilson-Cairns
FOTOGRAFIA: Roger Deakins
MONTAGGIO: Lee Smith
MUSICHE: Thomas Newman
Guerra
Regno Unito/Stati Uniti, 2020, 126 minuti
Schematizzando un po’ per rendere meglio l’idea, il piano sequenza (un’inquadratura senza stacchi di montaggio che racconta un’intera sequenza, o anche più di una) è stato nella storia del cinema e nelle sue teorie allo stesso tempo una maniera con cui cercare di aderire maggiormente alla verità di ciò che si vede sul grande schermo (soprattutto grazie alla teorica coincidenza tra “tempo reale” e “tempo cinematografico” e all’utilizzo della profondità di campo) e un artificio che in qualche modo mette in crisi la verità più immediata delle immagini. Sempre seguendo una semplificazione di fondo, il piano sequenza è passato da teorico strumento del naturalismo a espressione di una realtà ambigua e complessa (I figli degli uomini, Alfonso Cuaron, 2006) o di una realtà interiore e psicologica (Birdman, Francisco Gonzales Innaritu, 2015, ma un’operazione simile caratterizzava già nel 1948 l’indagine interna a quattro mura di Nodo alla gola di Alfred Hitchcock); ipotizzato come chiave per una maggiore aderenza alla realtà e per un’apparente maggiore purezza del linguaggio, man mano si è trasformato in evidenza dell’artificio cinematografico e, in particolare negli ultimi anni, delle sue potenzialità di “creare autonomamente senso”, talvolta arrivando al confine con l’esercizio di stile e/o con la freddezza di sguardo.
1917, il kolossal immersivo e roboante che Sam Mendes ha dedicato alla Prima Guerra Mondiale, è girato con due lunghi piani sequenza che pedinano, seguendoli e osservandoli dall’esterno tanto quanto entrando nella loro interiorità sconvolta, orgogliosa e spaventata, due soldati inglesi alle prese con una missione nella terra di nessuno al limite dell’impossibile e dell’incredibile, necessaria per non cadere nella trappola dell’esercito tedesco in finta ritirata e per evitare la carneficina. Sullo sfondo, nella profondità di campo, si stagliano le testimonianze delle trincee formicaio, del paesaggio devastato e modificato, delle armi e dei cadaveri disseminati.
Simboli, materiali e corpi che più che essere testimonianze storiche e documentaristiche (certamente, in parte c’è anche questo aspetto, ma complessivamente è secondario), vengono piegati alle sensazioni più intime dei due protagonisti, come un continuo sottolineamento visivo, una cassa di risonanza delle loro paure, della loro angoscia e della quasi insostenibile tensione che li domina. Esemplare da questo punto di vista, oltre ad essere forse il momento più bello e di maggior impatto, è la sequenza notturna che apre la seconda parte, una folle corsa ambientata tra le rovine di una città completamente distrutta e illuminata da un furioso alternarsi di luci incendiarie e tenebre totali; la sequenza più irrealistica – quasi videoludica – e contemporaneamente quella in cui maggiormente, e nella sostanza “più realisticamente”, condividiamo la paura del protagonista e in cui con maggiore forza anche noi spettatori veniamo immersi e ci smarriamo nella stessa impossibilità del personaggio di sapere cosa lo può aspettare dietro l’angolo. 1917 funziona soprattutto per come, attraverso il parossismo del piano sequenza, forse più vicino alla furia tecnica che a quella stilistica, e ad ogni modo ben lontano dalla restituzione più documentaria della realtà, riesce a trasmettere un senso di costante minaccia, una sorta di suspense radicata e inarrestabile.
Nel film del regista di American beauty e degli ultimi due episodi della saga di 007, quindi, l’utilizzo sfrenato e urlato del piano sequenza sembra voler ribadire la sua connotazione poco naturalista di aderenza alle soggettività e allo sguardo dell’individuo sul contesto che lo circonda. È, per esempio, anche un’opera che manipola il tempo, pure esso raccontato assolutamente in relazione alla sua percezione soggettiva, con ellissi, accelerazioni e altri svincoli che contraddicono la relazione teorica tra “tempo reale” e “tempo cinematografico” di cui accennavamo all’inizio.
Nulla di nuovo sotto il sole. Come fatto notare da molti, non possiamo certamente sorprenderci di vedere lunghi piano sequenza nel 2020 e trovarvi una soluzione unica e rivoluzionaria. Allo stesso modo, anche con questa consapevolezza, non siamo certo obbligati a rimanere indifferenti e algidi, ignorando i motivi d’interesse di fondo dell’operazione. A partire – ma qui lascio la parola a chi è più esperto di me (consiglio a questo proposito un interessante approfondimento pubblicato sul numero 3 del 2020 di FilmTv) – dalle parentele con certi videogiochi di guerra che fanno dell’immersione la loro bandiera, e che accennano al radicamento di sempre più forti legami tra i due media.
C’è però soprattutto la questione dell’umanesimo di fondo, assente (o minoritario) in molte operazioni recenti basate proprio su una sorta di autonomia delle tecniche nel creare senso, significato e sguardo sul mondo; dall’egocentrismo stilistico di Birdman all’approccio assolutamente teorico, e freddo, sul mezzo cinematografico di Dunkirk di Christoph Nolan, war movie probabilmente seminale nel bene come nel male diretto dall’alfiere di un’idea di cinema che potremmo definire “tecnocrate”.
Mendes pare invece voler continuamente inseguire le potenzialità e i valori più umanisti e intimi, talvolta pure “sentimentali”, anche di un’operazione in cui gli attori principali sono la scelta tecnica e lo strumento stilistico e di linguaggio portato alle estreme conseguenze, come a voler nascondere con la concretezza della partecipazione il substrato puramente teorico che ha caratterizzato prodotti simili. Lo si vede principalmente nella totale immersione e nel predominio della soggettività a cui abbiamo accennato, così come in dettagli e momenti che sembrano appunto voler rincorrere la partecipazione emotiva, talvolta non lontani da una certa idea di ricostruzioni storiche e melodrammatiche hollywoodiane, e talaltra vagamente ruffiani (su tutti, quella deviazione della cinepresa che, per un attimo, abbandona il nostro personaggio e insiste sulle ferite e sui corpi maciullati dei soldati in infermeria; il classico esempio di eccessiva insistenza su un elemento delicato che sarebbe stato comunque evidente e centrale).
È evidente quindi come Sam Mendes abbia cercato di realizzare un film “caldo” ed emotivamente denso, con l’umanesimo e la centralità più distaccata e teorica delle scelte tecniche e formali che vanno a braccetto e di pari passo, alimentandosi a vicenda. È forse questo l’elemento più interessante di questo kolossal. Non tutto torna sempre, però il risultato complessivo è certamente lontano dal puro esercizio di stile, innegabilmente d’impatto e altrettanto chiaramente emozionante, al netto di qualche caduta e scorciatoia.
Un plauso finale va, inevitabilmente, al grande direttore della fotografia Roger Deakins, già collaboratore dello stesso Mendes, dei Fratelli Coen e di Denis Villeneuve e coartefice di 1917.