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18/11/2019 di: Francesca Marcellan
Il titolo italiano di questo bel film di Safy Nebbou è l’infedelissima traduzione di Celle que vous croyez, secondo l’inveterato vizio di ribattezzare i film con un tocco spiritoso, si presume maggiormente accattivante per il pubblico. È una procedura che la distribuzione italiana sembra avvertire come quanto mai necessaria specie per alcuni film francesi ascrivibili al genere dei “racconti morali” alla Rohmer, ossia storie di personaggi che analizzano se stessi e i loro pensieri, dove la narrazione è al tempo stesso anche riflessione su di un problema filosofico. Forse proprio la mancanza di un corrispettivo genere cinematografico italiano spinge verso una traduzione virata sulla commedia, specchio privilegiato di un’identità nazionale fondata sulle risate tra le lacrime, più che sul pensiero analitico.
“Il mio miglior profilo”, dunque, va visto proprio inserendolo in quest’alveo, altrimenti lo si riduce a qualcosa tra la sociologia da rivista femminile e la storia boccaccesca, come si è purtroppo spesso verificato nelle recensioni. Il riassunto più diffuso della trama è infatti più o meno questo: avventure amorose di Claire (Juliette Binoche), ancora abbastanza piacente cinquantenne divorziata con due figli, che si mette nei guai innamorandosi del giovane Alex (François Civil), conosciuto tramite un falso profilo Facebook (“il mio miglior profilo”, per l’appunto) in cui si spaccia per ventenne.
Il vero tema del film è invece enunciato fin dal titolo “Quello che credete” (che io sia), che è anche il titolo del romanzo di Camille Laurens dal quale è tratto, pericolosamente vicinissimo al pirandelliano “io sono colei che mi si crede”. Più che dalle parti di Pirandello, però, siamo du coté de chez Freud, poiché il film è strutturato come un insieme di sedute di psicoterapia e tutto il resto di ciò che vediamo non è che un flash back, a parte il finale e una brevissima scena necessaria a chiarire un indispensabile snodo della trama (è anche l’unica scena nella quale la protagonista non appare). Tutti gli eventi, dunque, sono sempre visti con un filtro soggettivo, perché sono narrati da Claire in un racconto che tra l’altro non è affatto neutro, ma pesantemente influenzato da contesto e destinatario. Sono frammenti della sua vita, scelti in base a ciò che lei ritiene significativo per capire e guarire il dolore che l’ha spinta a iniziare la psicoterapia. Addirittura la seconda parte del film mette in scena un racconto che Claire scrive, immaginando uno sviluppo alternativo della sua storia con Alex, e che consegna alla sua psicoterapeuta (Nicole Garcia) perché lo legga.
La soggettività che impregna il racconto rende gli altri personaggi pure funzioni dei desideri perennemente insoddisfatti di Claire, e non compaiono quindi mai in scena se non insieme a lei. Il suo amante, Ludo, le rifiuta ogni tenerezza, riducendo la relazione a puro sesso. I suoi figli si manifestano come bisogno di accudimento senza offrirle nulla in cambio; nelle scene in cui appaiono non c’è mai un vero scambio ma piuttosto la fruizione di un servizio: mangiano quello che lei ha preparato o si lamentano se non c’è da mangiare, aspettano che lei li vada a prendere dopo l’attività sportiva e vengono aiutati a fare i compiti. I suoi studenti (insegna letteratura francese all’università) sono solo un pubblico indistinto la cui unica interazione consiste nel coglierla in fallo, scoprendo una crepa nella sua immagine, come si vede quando una studentessa le suggerisce una data che ha dimenticato, piccola spia pubblica della sua crisi privata. Le sue lezioni si svolgono su di una specie di palcoscenico illuminato, mentre la platea è al buio, come se Claire fosse un’attrice, addirittura con abiti di scena; a differenza che nel resto del film, che attraversa perennemente spettinata e infagottata, è elegante e seducente, con gonne aderenti e tacchi alti, i capelli ordinati e raccolti. Nel suo lavoro Claire è una donna sicura, ma questo non conta nulla per il nucleo più profondo della sua identità. Solo incidentalmente verremo a sapere che scrive anche dei libri, ma questo sembra non avere nessuna importanza per gli altri personaggi, che sono tutti legati esclusivamente alla sua dimensione affettiva. Non compaiono infatti mai dei colleghi e solo in due occasioni degli amici: in una sono puro contorno (si tratta di una festa in cui la protagonista beve e balla, e l’unico sonoro è la musica); nell’altra la incasellano in modo critico, quando Claire, durante una cena, sbircia il telefono e sorride. Un commensale le chiede di che si tratta e lei risponde che è un ragazzo insistente, al che un uomo le dice: «Non giocherai mica a fare la panterona?», inchiodandola immediatamente a un stereotipo negativo, mentre la sua risposta, profondamente rivelatrice di sé, «Io non gioco», cade completamente nel vuoto e la scena termina bruscamente: nessuno è disposto ad accettare ciò che rivela di se stessa.
Un’altra mancanza che balza agli occhi, in quest’universo filtrato da Claire, è quella dei legami con la famiglia d’origine. A parte un fratello morto in un incidente aereo, non veniamo a sapere di nessuno. E infatti il nucleo più profondo del suo dolore è quello dell’abbandono, ripropostosi nel rapporto con il marito, che l’ha lasciata dopo vent’anni di matrimonio. «Lui era tutto per me», così lo racconta, in una visione totalizzante dell’amore familiare spinta fino al sacrificio di sé; nella stessa occasione dice infatti «ho voluto assolutamente allattare i miei figli, anche se dopo le mie tette e la mia pancia non sono più state quelle di prima». Per Claire l’amore è l’aspirazione fusionale del bambino rispetto alla madre, aspirazione che non può che essere frustrata.
Il cammino verso la guarigione avviene nella ricerca di una risposta alla domanda fondamentale «Chi sono io?». Per arrivarci, Claire deve progressivamente sgombrare il campo non solo da «quello che voi credete che io sia», ma anche da ciò che lei stessa vuole rimuovere di sé, mentendo anche con la psicoterapeuta. La sua verità, alla quale riesce infine ad arrivare, è ammettere che nel profondo di sé non è nessuna delle sue rappresentazioni, false entrambe: né una professoressa cinquantenne né una ventenne innamorata, ma solo una bambina ferita.
In questo senso i social e il loro uso distorto non sono affatto il tema del film, ma solo uno dei tanti strumenti con cui cerchiamo di costruirci un’identità funzionale alla soddisfazione di quelli che crediamo essere i nostri desideri.
Alla fine della psicoterapia, dopo essersi congedata dalla dottoressa, fino ad allora sua unica interlocutrice non in soggettiva (cioè esterna ai suoi racconti), Claire è sola davanti a un laghetto, in un giardino; per la prima volta in tutto il film lo sfondo non è più la città, grigio e freddo paesaggio costruito dall’uomo, ma un ambiente naturale. Prende il telefono, quello che usava esclusivamente per sentirsi con Alex, e lo chiama. Sentiamo la linea libera e il film finisce così. Non importa se il ragazzo risponderà o no, quello che importa è che Claire è guarita, finalmente uscita dal mondo finzionale in cui era intrappolata, ed è ora in grado di cercare un dialogo con qualcuno di reale, che non sia solo la proiezione dei suoi desideri e delle sue mancanze.