Fa un cinema popolare Pietro Marcello. Curiosamente popolare. Diversamente popolare. Lo fa in modo del tutto nuovo e, sospetto, riesce a farlo perché conosce quello che oggi è popolo. E lo rispetta, a differenza di quello che succede di solito.
Il prodotto popolare d’autore dell’industria culturale è, di norma, sempre lo stesso: minestra riscaldata, allungata, con l’aggiunta di qualche spezia per farla sembrare nuova e aggiornata ai tempi. Ozpetek insegna. Marcello no: torna alle origini e al tempo stesso cambia tutto. Sfronda la storia che racconta riducendola agli snodi fondamentali. Resta una narrazione forte, così arcaica che più che da un romanzo del Novecento sembra tratta da una fiaba riletta con Propp, tanto diventa schematica: l’eroe, la principessa, gli aiutanti, i cattivi (e così legge infatti la sua storia, in una battuta del film, il personaggio interpretato da Carlo Cecchi). Così forte è il racconto che, come nelle fiabe, il realismo non serve.
Non serve scegliere un’epoca precisa in cui la storia si svolge, ma semplicemente “c’era una volta”. Il dettaglio d’epoca perde totalmente la sua funzione realistica e diventa espressivo, con un’immediatezza che sfrutta l’immaginario dello spettatore.
Il caso più eclatante è quello dei costumi, che così raccontano in un colpo d’occhio la psiche del personaggio: la bella popolana Margherita, che ama il suo uomo con naturalezza e senza chiedere nulla in cambio, esce dal cinema degli anni Cinquanta; l’altera Elena Orsini, chiusa nei privilegi di classe così come nelle sue camicette chiuse da nodi e bottoni, ha la compostezza e l’intangibilità della Mangano di Morte a Venezia. Non a caso nei rari momenti d’amore in cui Elena riesce a uscire dalla gabbia di classe l’abito scompare dall’inquadratura: queste scene sono risolte in primissimi piani e dettagli dei volti, labbra che baciano e che sussurrano. Addirittura durante il primo incontro, nella scena del congedo, la macchina da presa partecipa emotivamente e fa quello che i due vorrebbero e non osano fare: si avvicina, li accarezza, trema dei loro fremiti.
Se le due protagoniste femminili sono caratterizzate dall’abito in modo univoco, nel caso del protagonista, caratterizzato da una maggiore complessità e che vediamo trasformarsi nel corso della vicenda, l’abito può cambiare in funzione della scena. Alla festa in casa della ricca fidanzata non ha semplicemente un brutto abito, ma tra le eleganze protonovecentesche è inesorabilmente fuori posto con uno sgargiante completo anni Settanta, quando le confezioni industriali davano un’illusione di integrazione estetica anche a chi negli anni del boom economico era stato pochissimo miracolato. Dopo il raggiungimento del successo Martin è fisicamente trasformato. La prima volta che lo vediamo ormai scrittore famoso è nei panni di Pulcinella, in una rissa con Arlecchino. È diventato la maschera napoletana per eccellenza, è diventato la recita della sua miseria, della lotta per la sopravvivenza e della malinconia dei desideri realizzati che scopre ora per la prima volta. Dopo la rissa lo vedremo trasportato in una casa lussuosa che sembra quella di Elena e invece scopriremo essere la sua. Martin ora è biondo, la belva bionda di cui aveva parlato durante l’ultimo disastroso pranzo a casa della fidanzata, che aveva sancito la fine del loro amore.
Questa esplicitazione visiva permette a Marcello anche di dare corpo ai pensieri e alle emozioni del protagonista, senza una concettualizzazione simbolica ma piuttosto rendendo concrete delle metafore elementari che non percepiamo più neppure come tali. Ad esempio, dopo il primo incontro con Elena se ne torna a casa felice come un bambino e, infatti, vediamo un bambino che corre sorridente stringendo a sé quello che sembra essere un regalo. Il suo rapporto con la sorella torna due volte rappresentato da un falso flash back, due ragazzini pieni di gioia che ballano. I suoi sogni di gloria e d’amore sono un veliero in mare aperto, che alla fine si inabissa. Alla fine del film, dopo aver respinto Elena rivelando a lei e a se stesso che il loro amore non era mai stato altro che un’illusione, il rimpianto di aver sprecato la propria vita si sostanzia in un pedinamento del sé stesso di prima e un ritorno al mare, l’elemento in cui avevamo visto Martin nella prima scena. Un Martin ancora in pace con se stesso, sicuro nel suo elemento e per il quale l’amore era semplicemente farlo. Con Elena non lo farà mai, perché l’amore con lei è qualcosa da conquistare solo a patto di cambiare sé stessi, ma non accadrà nella direzione voluta da lei.
Anche la colonna sonora rinuncia alla coerenza per dare voce ai pensieri: le parole dei testi delle canzoni si ascoltano come monologhi, come appare in modo palese al ritorno a Napoli di Martin, quando Teresa De Dio esprime il suo «voglio tornare tra i vicoli di questa città». Si tratta di canzoni popolari, appunto, spesso in dialetto napoletano, lingua che parlano molti dei personaggi, quelli che con il protagonista condividono un’appartenenza di classe. Gli altri parlano italiano ed Elena, spesso, il francese. Un voluto anacronismo per sottolineare la sua estraneità, retaggio dell’epoca in cui il francese era la lingua della buona società, tra Sette e Ottocento, prima del culto romantico, e popolare per l’appunto, delle lingue nazionali. Elena è irrimediabilmente un’illuminista dell’ancien regime, col suo amore per la cultura che però deve restare fine a se stessa e la convinzione che l’unico strumento di ascesa sociale per la classe lavoratrice non possa essere che il lavoro “meccanico”, non intellettuale.
Da qui il suo proporre ossessivamente al fidanzato l’esempio dell’impiegato del padre che ha fatto carriera e che gli propone a modello.
Queste infrazioni ai canoni del racconto non sono nuove di per sé, ma è nuovo l’uso che ne fa Marcello, che le rende immediatamente comprensibili allo spettatore e strutturalmente funzionali al racconto. Si pensi invece, ad esempio, all’uso intellettualistico dell’anacronismo da parte di Martone in Noi credevamo: nella scena della morte degli attentatori alla vita di Napoleone III, si vede, a un certo punto, uno scorcio di un carcere moderno. Lo scopo è proporre allo spettatore un paragone tra la vicenda risorgimentale e gli anni di piombo. È quindi qualcosa di esterno al film, la proposta di una riflessione storica che non è detto tutti colgano né siano in grado di svolgere.
Marcello, invece, racconta in modo diverso perché sa che lo spettatore è ormai abituato alla compresenza, alla frammentarietà, alla giustapposizione, che a loro volta lo spingono a cercare, al polo opposto, la rassicurazione dell’archetipo e del mito.
E in questa dialettica tra complessità e semplicità abita il suo cinema, che riesce così a essere popolare in un modo del tutto nuovo.
Bella analisi, densa e comprensibile, al servizio del film e degli spettatori. È una recensione anch’essa popolare nel senso migliore, cioè nel senso che è altamente didattica. Dopo averla letta mi faccio un’idea chiara del film, perché il giudizio dell’autrice segue e non precede un’analisi quanto più oggettiva possibile.