La trentatreesima edizione del Cinema Ritrovato, festival che si è tenuto in una particolarmente torrida Bologna dal 22 al 30 giugno, ha offerto la consueta sterminata, per la quantità di film proposti e per la varietà delle cinematografie e dei periodi affrontati, offerta di stimoli e visioni. Diventa quindi difficile individuare un’ottica generale che dia alla manifestazione interpretazioni e chiavi di lettura nette. Il senso che può riassumere un evento come il Cinema Ritrovato è semmai quello soggettivo, sfuggente, aperto a mille scelte e variabili e quasi “romantico” della scoperta e della riscoperta; di registi accantonati in un angolo della memoria e, appunto, “ritrovati” come di cinematografie, film, autori e periodi sconosciuti che diventano improvvisamente irrinunciabili; di autori sottovalutati o ignorati che si scoprono ben più interessanti di quanto si pensasse e di opere che, come ogni classico che si rispetti, dimostrano di avere ancora cose nuove da dirci.
Particolarmente interessante è stata la sezione dedicata al Cinema della Trizona tra il 1945 e il 1949. La Trizona è la Germania Occidentale divisa tra i protettorati inglese, statunitense e francese, da cui nel 1949 sarebbe nata la Repubblica Federale Tedesca. Una nazione, cioè, in ginocchio, dominata dalle macerie fisiche dei palazzi bombardati e non ancora ricostruiti, e da quelle psicologiche dei sensi di colpa e del trauma di un passato ancora fumante; una nazione che, formalmente, non esisteva e che cercava un percorso per la rinascita. Molti dei film presentati dalla sezione davano in qualche modo l’idea che anche il cinema proponesse strade inedite, che fosse in qualche modo anche lui alla ricerca di un nuovo modo di essere, sperimentando forme e approcci e risultando quindi variegato, vitale e moderno. È stata una sezione variegata, ma complessivamente è emersa la riscoperta di un cinema che non accogliesse e fotografasse passivamente la realtà cupa del paese e del limbo che stava attraversando, preferendo “aggredirla” e rielaborarla. Sono opere in cui il recentissimo passato e le sue eredità vengono affrontate in una maniera che è allo stesso tempo (inevitabilmente) evidente e tangenziale. Anche con la forma della commedia; Berliner ballade (1948) di Robert A. Stemmle è, per esempio, una commedia ironica ambientata tra le macerie di Berlino e con protagonista un reduce che torna nella capitale, rimanendo più spiazzato che sconvolto dalla situazione della città e che ha nella comicità surreale e spiazzante dei fratelli Marx il riferimento più immediato e in cui tutto assume i colori del paradosso e il caos della città divisa è rielaborato da un costante teatro dell’assurdo. Filme ohne title (1948) di Rudolf Jugert è invece un esempio di metacinema che parte dalla discussione tra un regista, uno sceneggiatore e un attore su quale sia il tipo di film più adatto a raccontare la situazione della Germania, e se sia opportuno realizzare una commedia. Il dibattito viene interrotto dall’arrivo di una coppia amica del regista su cui i tre iniziano a spettegolare; così, la loro storia diventa la commedia che i tre cercavano, raccontata attraverso un approccio metacinematografico da cui emergono la riflessione sullo stato della nazione, la possibilità di rielaborazione e soprattutto esempi, facili e “di genere”, per un popolo alla ricerca di una nuova identità e di una strada da seguire. Estremamente significativo è anche, del resto, il fatto che la relazione raccontata fosse capace di vincere le differenze di classe.
Ci sono poi due commedie che è come se partissero dal presupposto che è inutile raccontare una storia se si vuole capire la Storia, soprattutto in momenti indefinibili e complessi come quelli coevi o dolorosi come quelli appena trascorsi. Due film folli e bizzarri in cui pare essere meglio accantonare la linearità e l’immediatezza narrativa e cercare un approccio più liquido e libero di vagare tra i significati nascosti e i dubbi e le paure che emergono. Der Große Mandarin (1949) di Karl Heinz Stroux porta alle estreme conseguenze il metacinema facendo continuamente interagire attori e spettatori e diventando così uno “specchio” in cui continuo è il rimando tra quella che nel film sarebbe la finzione e quella che invece sarebbe la realtà, e tra la commedia e la “realtà vera” della nazione con tematiche quali il mercato nero, le differenze di genere e la paura di una nuova deriva autoritaria. Herrliche zeiten (1949) di Gūnter Neumann e Erik Ode è invece, per fare un paragone contemporaneo che renda l’idea, una specie di “Blob” che rielabora la storia tedesca da inizio XX secolo al 1945; è una girandola di personaggi, di immagini di repertorio, film, cinegiornali, spettacoli di varietà e spezzoni di vario tipo raccontati da una voce narrante simbolo dell’uomo tedesco qualunque, e quindi, inevitabilmente, anche simbolo della maggioranza silenziosa. Il film così non lesina e non cela frecciate e cattiverie, con le quali mettere la nazione di fronte alle proprie responsabilità e ad alcuni suoi valori e caratteristiche che resistono nei decenni, per poi nel finale in cui la voce narrante perde la sua baldanza davanti ai risultati della guerra e del nazismo trovare una sorta di vicinanza e comprensione. Attraverso l’ironia e il sarcasmo ribollono quindi i sensi di colpa e la necessità della loro rielaborazione. Chi più chi meno, chi con maggior cattiveria e chi con maggiore distacco, tutte queste commedie in qualche modo parevano porsi l’obiettivo di lanciare un messaggio, un invito, sbeffeggiando passato e presente per segnare la strada per il futuro.
Non sono mancati film drammatici. Il mesto In jenen tagen (1947) di Helmut Käutner è un più che malinconico dramma collettivo e corale che racconta sette episodi di sacrifici, rinunce e perdite di sé che rappresentavano esempi di resistenza e sacrifici privati e intimi nel corso delle varie tappe del nazismo, dalla salita al potere all’esplodere della guerra in territorio tedesco. The ruf (1949) di Fritz Kortner racconta il ritorno di un esule, professore ebreo fuggito negli Stati Uniti nel 1933, il quale ritrova ancora forti in settori dell’opinione pubblica le idee più pericolose e gravi e la simpatia per il regime.
Poi ci sono, inevitabilmente, i campi di concentramento. L’olocausto è stata una tematica rimossa dai film sopra accennati, come un peso troppo grosso da affrontare. Lang is der veg (1947) di Herbert Fredersdorf e Marek Goldstein, un reduce, è una delle primissime opere che cercano un approccio di finzione all’Olocausto. È una storia semplicissima di fuga, scomparse e ritrovamenti, in cui un nucleo famigliare si ricompone e in buona parte ambientata nei campi per gli sfollati che, negli anni della Trizona, accoglievano gli ebrei scampati e quelli ormai privi di una patria. Di toit milen (1946) di Hanuŝ Berger è invece un cortometraggio documentario che guarda in faccia i risultati dell’Olocausto. Non sono i cadaveri ammassati, i corpi scheletrici, le fosse comuni o i bambini vittime delle sperimentazioni scientifiche gli elementi più sconvolgenti del breve film; ciò che più turba sono i volti dei cittadini tedeschi. Il film infatti, riprende gli abitanti di Weimar portati dagli alleati in visita al vicino campo di concentramento di Buchenwald. I volti dell’andata sembravano quelli di chi stava andando ad un pic nic. Al ritorno, invece, risaltano negli sguardi l’angoscia, lo smarrimento, la sorpresa e il senso di colpa; così come non mancano sguardi di una malcelata soddisfazione e illuminati da lampi di odio. Quindi, volti sconvolti e impauriti dall’evidenza di qualcosa che non si sapeva essere così enorme, e volti invece che in qualche modo ribadiscono il sostegno morale del popolo tedesco da cui, inevitabilmente, il nazismo ha trovato linfa vitale.