REGIA: Agostino Ferrente
CAST: Pietro Orlando, Alessandro Antonelli
SCENEGGIATURA: Agostino Ferrente
FOTOGRAFIA: Alessandro Antonelli, Pietro Orlando
MONTAGGIO: Letizia Caudullo, Chiara Russo
MUSICHE: Cristiano Defabriitis, Andrea Pesce
Documentario, Italia 2019, 75 minuti
Napoli, quartiere Traiano, 2014; il sedicenne Davide, estraneo ai problemi con la giustizia e al sottobosco camorrista, viene colpito dal proiettile di un carabiniere che lo ha scambiato per un latitante e muore. Da questo ricordo, da questa ferita simbolica del quartiere, nasce Selfie, sperimentale, denso ed emozionante documentario di Agostino Ferrente che percorre con una certa radicalità la strada che vuole umanizzare il ritratto della Napoli periferica, disagiata e criminale tante volte apparsa sullo schermo, cercando un approccio più intimo e soggettivo che dia voce ai protagonisti più nascosti di quel contesto. Per percorrere questa strada Ferrente riflette sul linguaggio cinematografico e sulle modalità di sguardo, in particolare quelle legate alle innovazioni tecnologiche e alle nuove maniere di cogliere la realtà proprie dei più contemporanei strumenti di comunicazione e della loro fruizione.
Il film è infatti un susseguirsi di selfie, una serie di autoritratti con cui i due protagonisti Pietro e Alessandro, amici di Davide, raccontano loro stessi, il ricordo dell’amico, i loro obiettivi, la realtà del quartiere e come con essa si rapportano. È il loro film, che noi vediamo formarsi e crescere in presa diretta, così come in divenire è lo svelamento della realtà e dei loro stati d’animo. Essi scelgono cosa inquadrare, cosa raccontare, cosa dire, quando parlare e quando, al contrario, dare risalto ai silenzi e ai volti, quando schiacciare la telecamera sul proprio volto e quando allargare lo sguardo sul contesto. Il loro film è, inoltre, intervallato dalle riprese delle varie telecamere della zona e dai “provini” ad altri coetanei del quartiere, sempre realizzati a mo’ di selfie.
In qualche modo Selfie si basa quindi sul concetto che un’unica e netta maniera oggettiva di raccontare la realtà non esiste, ma esiste semmai la possibilità di rivelarla attraverso i punti di vista, di scovarla e scavarla da varie angolazioni a seconda di dove il lumicino è puntato e di quali sono i presupposti di partenza. Di questo è emblematico il momento in cui Pietro e Alessandro, ragazzi che hanno entrambi scelto di stare alla larga dal mondo dello spaccio e della criminalità ma che vivono la cosa con sfumature diverse, discutono sull’opportunità di mettere in scena gli spari e le armi. Per Alessandro, decisamente convinto della sua scelta di vita, sarebbe meglio rappresentare solo i lati più positivi, belli e nascosti, gli esempi meno conosciuti e più ignorati del quartiere, anche per ribattere ai pregiudizi; per Pietro, altrettanto convinto ma anche in qualche modo affascinato dal sottobosco più cupo della zona, è al contrario fondamentale raccontare con chiarezza anche gli aspetti più problematici, perché «in un documentario non si possono mettere solo le cose belle». Il sottofondo camorristico, quindi, da un lato è al massimo evocato, come dato per scontato e ovvio, e dall’altro invece vuole essere più presente e invadente, e diventa protagonista di una discussione estetica ed etica sul senso delle narrazioni e delle immagini. Una discussione che matura in maniera automatica, naturale e inconsapevole nei due, parallelamente allo svilupparsi del loro film e che nasce dalla diversa situazione intima, esistenziale e lavorativa e dalla differente forza con cui Pietro e Alessandro ribattono ai richiami più pericolosi. Sono due specchi altrettanto veri della stessa realtà, ed entrambi diventano in qualche modo oggettivi proprio perché filtrati in maniera decisiva dalle soggettività di partenza.
Superando la freddezza cronachistica, i filtri più netti di uno sguardo esterno – anche quando questo racconta una storia vera e lascia il più possibile la parola ai protagonisti – e quella degli stereotipi, in tempi in cui ognuno, potenzialmente, può riprendere la realtà ogni volta che vuole e dall’ottica che preferisce o fare il “suo film”, Ferrente ragiona sulle possibilità dei nuovi dispositivi (e della loro fruizione libera e a portata di mano) di agire sullo statuto del realismo; cioè, in conclusione, sul linguaggio del cinema del reale. Un approccio più fluido e vischioso, con le inevitabili scelte che ognuno compie quando racconta di sé, ma che anche per questo motivo può dare un valenza più stratificata, complessa, intima e compiuta alla verità della realtà raccontata.
Selfie è innegabilmente un film teorico, un’opera che riflette sul linguaggio sperimentandolo. È un’operazione sotto certi versi rischiosa, data anche l’importanza e la tragicità del contesto raccontato, e decisamente complessa, ma che non appesantisce né la fruizione né la centralità di ciò che si vuole raccontare. Così Selfie avanza con l’assoluta semplicità del racconto intimo, delle interiorità alle prese con una realtà problematica e con le trappole che questa continuamente semina. È un film che umanizza, anche perché dà davvero voce a figure lontane dagli stereotipi e dai personaggi più tipici con cui la periferia criminale e disagiata partenopea viene spesso raccontata, tenero e allo stesso tempo duro, commovente e a tratti pure divertente; e, inevitabilmente, amaro e sincero, anche con ferocia e disperazione, per esempio ogni volta che i protagonisti guardano nella telecamera e in silenzio è come se ci fissassero, portandoci con loro nelle strade, negli appartamenti e nei volti del rione Traiano.