REGIA: Marco Bellocchio
CAST: Pierfrancesco Favino, Luigi Lo Cascio, Maria Fernanda Candido, Fabrizio Ferracane, Nicola Calì, Fausto Russo Alesi, Bebo Storti, Vincenzo Pirrotta, Piergiorgio Bellocchio
SCENEGGIATURA: Marco Bellocchio, Francesco La Licata, Francesco Piccolo, Ludovica Rampoldi, Valia Santella
FOTOGRAFIA: Vladan Radovic
MONTAGGIO: Francesca Calvelli
Biografico, 135 minuti
Il cinema di Marco Bellocchio è da sempre iconoclasta, spesso rabbioso e talvolta quasi maramaldeggiante e beffardo. Si pensi, per ricordare la sua prima stagione, all’inizio in “stile Blob” de Sbatti il mostro in prima pagina (1972) o alla furia dolente e violenta che impregna ogni dettaglio dell’esordio I pugni chiusi (1964). In tempi più recenti, questa iconoclastia che vuole sondare il tragico e le connotazioni più profonde della nostra storia recente con le armi del grottesco, delle deviazioni dalla realtà e della riflessione anche parodica sul linguaggio cinematografico ha, per esempio, caratterizzato Vincere (2008) e le sue sequenze “futuriste”, il racconto gotico sull’eredità della Prima Repubblica Sangue del mio sangue (2015) e il disperato e beffardo rimpianto di un finale diverso per il caso Moro in Buongiorno notte (2003).
La sua ultima fatica Il traditore, presentato al Festival di Cannes – dove ha ottenuto 13 minuti di applausi – racconta la figura di Tommaso Buscetta, il “boss dei due mondi” e successivamente superpentito che con le sue rivelazioni ha messo in ginocchio Cosa Nostra. Con saltuari flashback e un significativo flashforward, Bellocchio racconta il periodo che va dal suo arresto in Brasile nel 1983 fino alla testimonianza nel processo contro Giulio Andreotti di dieci anni dopo.
Il traditore è un film altalenante. Lo è tanto per le variazioni stilistiche che lo caratterizzano, quanto per l’alternanza di momenti e sequenze decisamente affascinanti, visionarie e potenti con altre più ovvie e consuete. La visionarietà, gli accenni grotteschi e la fuga dall’immediatezza della realtà raccontata, tipici del regista, così rompono il flirt che Bellocchio mostra di avere con lo stile fiction biografica di marca Rai o Mediaset che spesso – si veda l’intero periodo brasiliano o, in particolare, gli incontri tra Buscetta e Giovanni Falcone – sembra essere il tono dominante. L’elemento più originale è però di pura sostanza e profondo; come, cioè, il racconto della vita di Tommaso Buscetta sia strumentale.
Può sembrare una considerazione paradossale, dato che Il traditore è un film biografico con tutti i crismi e il Buscetta interpretato da Favino è sempre in scena. Ciò che Bellocchio racconta di Buscetta e soprattutto come lo racconta, certe scelte stilistiche, gli stati d’animo e le vicende che approfondisce e ciò che al contrario rimane in secondo piano, le ellissi e gli aspetti lasciati nascosti fanno però sì che l’aspetto più strettamente biografico sia uno strumento per allargare lo sguardo e cogliere ciò che all’autore di Bobbio interessa davvero; i significati simbolici, quelli legati al superpentito per eccellenza e, in generale, quelli che connotano Cosa Nostra.
Come, per fare esempi, in Vincere la malcapitata protagonista era simbolo dell’attrazione verso l’uomo forte, e in Buongiorno notte l’Aldo Moro che si sistemava il paltò camminando per le strade di Roma alle luci dell’alba era il simbolo di rimossi, rielaborazioni e sensi di colpa, così Buscetta in qualche modo riflette, con anche una certa dose di ambiguità e con un sarcasmo sottile che esplode nel finale, la tendenza nazionale a scendere a patti col crimine organizzato per combatterlo e come questo mondo sia comunque espressione di caratteri nazionali fondamentali. La centralità, appunto, simbolica della famiglia intesa come motore di scelte e di visioni del mondo è forse l’esempio più lampante di questa considerazione. Il Buscetta di Bellocchio cammina lungo quel confine che separa l’accettazione e il contrasto, il fascino e il ribrezzo, la distanza e la vicinanza. È in qualche modo parente del mefistofelico vampiro maneggione e generone che in Sangue del mio sangue rappresentava il malaffare, la corruzione e il modus operandi da Prima Repubblica quasi apparendo “inevitabile”.
Anche in un film che, tolti i frequenti slanci visionari e i momenti che confermano il carattere iconoclasta e maramaldeggiante del suo cinema, è per lunghi tratti e certi versi meno libero e più statico della sua norma, Bellocchio continua quindi a offrire uno sguardo più vasto e a cercare una rielaborazione complessiva dello stato delle cose nel nostro Paese, andando oltre l’immediato anche al costo di apparire provocatorio o problematico. Solo a tratti ci riesce con reale efficacia. Noi ci poniamo un po’ a metà strada tra i numerosi entusiasti e i non rari delusi; certamente Il traditore appare altalenante e non sempre mostra il giusto nerbo, ma ad ogni modo, perlomeno nei suoi momenti migliori, è in grado di incidere, variare le strade che lo spettatore si aspetta e parlare di noi.
Menzione obbligatoria, infine, per il mimetico e intenso protagonista Pierfrancesco Favino, inevitabilmente decisivo, anche per come trasmette le sfumature volute da Bellocchio per il suo personaggio. Non poteva mancare una parte interpretata da Piergiorgio Bellocchio, figlio di Marco, icona inevitabile del cinema del padre.