REGIA: Jordan Peele
CAST: Lupita Nyong’o, Madison Curry, Winston Duke, Evan Alex, Shahadi Wright Joseph, Elizabeth Moss, Tim Heidecker
SCENEGGIATURA: Jordan Peele
FOTOGRAFIA: Mike Gioulakis
MONTAGGIO: Nicholas Monsour
Horror, 116 minuti
Due anni fa Scappa – Get Out di Jordan Peele era salito alla ribalta come horror dalle evidenti connotazioni, a metà strada tra il didascalico e il problematico, politiche; un horror che mischiando i toni e i vari sottogeneri del cinema di terrore – dal truce all’ironico, dall’inquietante suggerito al soprannaturale – affrontava le tematiche e le tensioni razziali statunitensi, mettendo sotto una luce beffarda l’apparenza di fraternità razziale dell’era obamiana, alla fine dei conti vista come presa di posizione più che altro di superficie. Significativo, per esempio, era il fatto che i cattivi fossero assolutamente e dichiaratamente “liberal”.
In Noi la tematica del razzismo non scompare, ma in qualche modo lascia spazio, diventandone una sfumatura decisiva, a quelle della lotta di classe, dell’inevitabilità della dicotomia sconfitti/vincenti, dell’emarginazione e dei rimossi. È un film giocato sul tema del doppio, dello specchio, del doppelganger, visti più come rivelazioni di ataviche questioni sociali e nazionali che degli angoli nascosti e più intimi dell’io.
Con Us Jordan Peele vuole alzare l’asticella senza tradire le caratteristiche mostrate nel suo film d’esordio, a partire dalla forte vena parodica e grottesca, e cerca di giostrarsi sul confine che separa la creazione di un immaginario potente e metaforico dall’evidenza chiara e didascalica degli assunti politici e delle prese di posizione; tra l’allegorico necessario per dare una realmente profonda lettura dello stato delle cose e il letterale che vuole farsi capire da tutti.
Il gioco che vuole unire questi due piani riesce in parte, pur, soprattutto per quanto riguarda l’impatto estetico e la sua capacità di essere d’impatto, mostrando qualche passo in avanti rispetto a Scappa – Get Out, un buon film su cui però pesa l’ombra della sopravvalutazione legata all’urgenza e all’importanza del tema. Certo ‒ piccola parentesi ‒ l’ombra della sopravvalutazione aleggia anche in questo caso in alcuni commenti e recensioni per le quali sembra apparire improvvisamente e per la prima volta con quest’opera la capacità dell’horror di dare uno sguardo più vasto e politico, ma tant’è.
La storia di una famiglia di colore assolutamente imborghesita – dettaglio che nel film assume un significato evidente dal punto di vista delle rappresentazioni razziali – che si trova di fronte al proprio doppio all’apparenza malvagio e che, di conseguenza, scopre una realtà inquietante e sommersa che supera i confini della propria villetta al mare è raccontata con un susseguirsi di sequenze spesso potenti e visivamente d’impatto, di per sé significative. Basterebbe il prologo come esempio. Sono i momenti in cui Jordan Peele riesce a lavorare sull’immaginario, a raccontare la realtà affrontandola in qualche modo in maniera tangenziale. Se alcune singole sequenze funzionano e se Peele dimostra di avere la mano e di sapere creare la giusta tensione, così come di saper dissacrare e dare una valenza beffarda a questa tensione nei momenti più grotteschi e ironici, è al momento di dare una visione complessiva che nascono i dubbi. È qui che si viene colti dal dubbio di un’eccessiva programmaticità, di una visione un po’ troppo tagliata con l’accetta e troppo didascalicamente esposta, di un film che nel suo rapporto con il contesto scorre in maniera troppo calcolata, in fin dei conti poco problematica e pure, alla lunga, prevedibile; questo avviene soprattutto nella seconda parte, quella appunto in cui lo sguardo esce dalla famiglia e abbraccia la nazione.
Per fare esempi classici di film horror che sono stati dichiarate e problematiche metafore politiche, in Non aprite quella porta (1973) di Tobe Hooper bastava l’inquadratura di una croce fatta con teschi e resti di animali per dare l’idea di come il film potesse lavorare in maniera critica sulla deriva di certi valori fondanti della nazione e della loro estremizzazione, così come per mettere sullo stesso piano l’istituto della famiglia era mirabilmente sufficiente il lavoro sugli stilemi di quel tipo di horror e sulla sua capacità di affrontare il rimosso e il non detto. Altro esempio classico sono gli zombi di Romero, efficace metafora dell’alienazione, del conformismo, del male qualunque senza che questi venissero citati didascalicamente.
Sono due esempi che, con la loro naturalezza nell’affrontare il genere e allargare lo sguardo se confrontati con Noi, possono dare l’idea di come il film di Peele sia troppo calcolato, esposto e “pesante”, di come complessivamente non riesca a trovare uno sguardo sul mondo e un lavoro sull’immaginario sufficientemente d’impatto. Alla lunga Noi viene risucchiato in una delle trappole dei nostri tempi; il didascalismo, per quanto Peele provi a tenerlo il più possibile nascosto, esattamente come i doppi rimossi che diventano l’anima nera del film.